Puglia e Valle d’Itria: tra colori, vini e antiche tradizioni
Un pomeriggio d’estate di qualche anno fa ero in macchina per le campagne intorno Ostuni, e il mio sguardo si perse tra le distese di ulivi che bruciavano nel tramonto. Scattai una foto mossa e pensai a una frase del libro che stavo leggendo proprio in quel periodo: “Il Sud del mondo suggerisce curiose priorità. Si ha un accosto particolare ai problemi – risolverli non risulta essere il primo gesto che viene in mente.” Il romanzo è La sposa giovane di Baricco, non ha nulla a che fare con il meridione o la Puglia in particolare, ma da quel giorno quella frase mi torna sempre in mente, quando le colline iniziano a riempirsi di uliveti e pale eoliche. Il panorama, che si entri in Puglia in auto o in treno, inizia a cambiare già da Foggia, così come l’aria e i colori. Certo, non si può dire che siano sempre gli stessi per tutta la lunghezza della regione – d’altronde stiamo parlando di circa 340 chilometri.
La Puglia è la regione da cui vengo e ancora, pur abitando a Roma durante tutto l’anno, la mia casa durante il mese di agosto. È un territorio il cui successo è cresciuto moltissimo negli ultimi tempi, anche a causa della pandemia che ha convinto molti a rimanere entro le mura nazionali, e che ha visto il mercato del turismo svilupparsi in maniera complessa seguendo due diverse specifiche: di massa e di nicchia. Quasi nessuno vuole restare digiuno di sole e mare durante il periodo estivo; a questo si aggiunge, per alcuni, la ricerca di uno svago che sia per quanto possibile vicino alle tradizioni culturali del luogo.
Per una autoctona – o forse sarebbe meglio dire un’oriunda – come la sottoscritta, la Puglia è il magico luogo dove si mangia sempre, si beve bene (sì, anche a pranzo), si legge molto, si vive lenti. Prendete le mie parole con le pinze, però: io qui ci sto poco, e solo d’estate. Ma forse tanto basta per poter restituire qualche istantanea di questi posti.
Da sempre e ovunque, la voglia di esplorare non mi è mai mancata. Tuttavia sono convinta che conoscere un territorio, anche il proprio, è difficile e necessita di un occhio attento e allenato. Solo in questo modo non si perde la possibilità di scoprire cose sempre nuove degli spazi di cui già crediamo di sapere tutto, e che già crediamo ci appartengano. I luoghi, proprio come le persone, è probabile ed è meglio che non ci appartengano mai: ciò che rimane nostro sono gli odori, i colori, i sapori. Oltre agli occhi, tutti i sensi devono stare all’erta in questa esperienza per restituire immagini vivide alla memoria.
Dei territori che conosco meglio della Puglia – la Valle d’Itria in modo particolare – ho annotato similitudini e differenze attraverso i sensi. Ho paragonato istintivamente i colori di queste campagne a quelli delle campagne di altre regioni: è difficile che qui il paesaggio sia tutto verde, molto spesso è il giallo a prevalere, ad arrivare fino al cielo. L’ho notato fino a che non è diventato di nuovo tutto verde, nella strada che da Martina Franca porta a Ostuni, dove gli alberi si allungano e la temperatura scende di qualche grado, anche di giorno. Quando si torna tra gli ulivi, si scorgono trulli vicini come gli acini di un grappolo d’uva. È il bianco il colore che prevale tra le costruzioni, dai trulli alle masserie, che negli ultimi anni sono passate da essere proprietà latifondiste a residenze chic. Bianche sono le città e i loro centri storici: Ostuni, Locorotondo, Cisternino.
Nell’esperienza, i sensi si sovrappongono e si influenzano l’un l’altro. Allora l’ulivo avrà un odore legnoso, profondo come le venature del suo tronco, il profumo delle foglie di fico sarà dolce quanto il sapore dei suoi frutti, quello del fico d’india esotico quanto il suo aspetto. L’olio è pungente, piccante per chi non ci è abituato, il vino diventa la freschissima unione di bianco e nero. In nessun’altra regione il vino rosato viene servito con tanta facilità come qui in estate: la Puglia è la patria del rosato, si pensi solo al Five Roses della cantina Leone de Castris, il primo vino rosato a essere imbottigliato e venduto in Italia, o al Susumaniello, proveniente dal vitigno della provincia di Brindisi.
Il bianco e il nero si uniscono non solo nel vino, ma anche nell’anima doppia di questa regione, fedele e pagana, sacra ed esoterica. Chiacchierando con le nonne – un piacere che non dovrebbe mai finire – si scopre di pratiche ancora non del tutto scomparse, retaggio di un passato pagano che si è confuso con la fede cristiana. Tra queste si colloca l’antico rituale dell’affascino, diffuso in Valle d’Itria. Il rito si compie in questo modo: davanti alla persona affascinata si mette un piattino colmo d’acqua in cui si versa dell’olio, per osservarne il comportamento. Si procede poi a toccare alcune zone del corpo della vittima del malocchio, recitando preghiere e facendo segni della croce. Ed è così che magia popolare e fede si fondono.
Sarebbe bene mettere nero su bianco queste tradizioni, per fissarle prima che vadano perdute del tutto, così come prendere nota di proverbi e aneddoti nei vari vernacoli, lingue sempre più sbiadite in favore dell’italiano normativo.
Di solito in questo spazio mensile mi occupo di letteratura, è la prima volta che scrivo di luoghi passando attraverso i sensi, l’esperienza. Ma cos’è la letteratura, se non la resa delle astrazioni che compongono l’esperienza? “La conoscenza umana ha inizio attraverso i sensi, e lo scrittore di narrativa inizia laddove inizia la percezione umana. Agisce attraverso i sensi, e sui sensi non si può agire con delle astrazioni”. (Flannery O’Connor)