Perché scrivere
La domanda che mi pongo – e pongo a voi che leggete – in questo appuntamento dedicato alla scrittura è una tra le più difficili che si possano porre, soprattutto a una persona che ama scrivere, leggere, o che deve farlo per professione o imposizione.
Immaginare la vita senza la scrittura è pressoché impossibile. La lingua scritta è imprescindibile, la usiamo per le questioni più banali (come la lista della spesa) passando per quelle via via più complesse: una lettera, una mail, il resoconto di un meeting, una traduzione, un romanzo. E anche se il tempo sembra correre più veloce delle parole, non credo si potrà mai arrivare a intendere la scrittura come un’attività fuori moda.
Edward Hopper diceva che se qualcosa si potesse esprimere con le parole allora non esisterebbe la pittura; io dico che se qualcosa si potesse esprimere oralmente, allora non esisterebbe la scrittura.
Per chiunque scriva, la scrittura è una forma di necessità, e non solo d’arte. Una questione di sopravvivenza e non un atto di libera scelta, per citare Paul Auster. È il mezzo, ma il più delle volte è anche il fine.
Tuttavia, mi rendo conto che legare quest’attività a un concetto di bisogno la renderebbe sterile, come una forma di autoanalisi impunita. D’altro canto, pensare alla scrittura come mero mezzo di comunicazione, di trasmissione di pensieri e sensazioni che potrebbero essere condivisibili, sembra altrettanto riduttivo.
Determinare l’origine di questa pulsione è come camminare per una strada impervia, che può assumere direzioni diverse a seconda di chi la intraprende. Scrivere potrebbe essere un’espressione del sé, una voglia di esternazione o una mescolanza tra le due, e forse neanche attraverso la loro addizione si arriverebbe al risultato finale.
Come ho già detto, mi piace indagare sui processi creativi che stanno dietro alla scrittura, leggendo interviste agli scrittori più famosi e conservandone alcune citazioni. Nelle ultime settimane ho fatto lo stesso per cercare di rispondere a questo quesito: perché si scrive?
Ho trovato la dualità e la tensione proprie di questo bisogno nelle parole taglienti di Simone de Beauvoir, secondo la quale “scrivere è un’attività complessa: è, insieme, preferire l’immaginario e voler comunicare […] due tendenze assai diverse e a prima vista contrastanti”. Solo chi rifugge e disdegna il mondo così com’è vuole crearne un altro attraverso le proprie parole. Un desiderio narcisistico e autoreferenziale, si direbbe, se non fosse per l’intenzione di voler condividere questa nuova realtà anche con altri. “Ma il desiderio di comunicazione presuppone che ci si interessi agli altri”, continua de Beauvoir, “anche se nel rapporto dello scrittore con l’umanità entra dell’inimicizia e del disprezzo”.
Ma allora, si scrive per sé o per gli altri? Entrambe le cose o nessuna delle due?
Prima di ritrovare il mio confuso pensiero nella chiara esposizione di Simone de Beauvoir, era stata la frase di un’altra scrittrice a colpirmi e a farmi sentire coinvolta, sia come dilettante nella scrittura, sia come esperta nella lettura. “Scrivere è tornare a casa”, dice Anna Maria Ortese, “lo stesso che leggere. Chi scrive o legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene.”
Fino a poco tempo fa pensavo che la scrittura fosse un affare personale, “solo per sé” come dice Ortese, un’attività intellettuale da fare nell’intimità della propria cameretta. Ma se non ci si fa leggere non si può capire il valore di ciò che si scrive, non ci si deve misurare con altri se non sé stessi: giudici alle volte troppo indulgenti, quando non troppo severi. E una scrittura libera dal giudizio esterno è solo un esercizio privato. Allora, per fare una citazione banale, la scrittura è come la felicità: reale solo se condivisa.
Cesare Pavese diceva che “è bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare alla folla”, mostrando così la sua intenzione di rendersi manifesto non solo alla sua interiorità. Intenzione comune a molti scrittori: farsi leggere, pubblicare in fortunati casi, raggiungere altre menti affini e non, per coinvolgerle, scioccarle, appassionarle, disgustarle. Senza mai svelare tutto.
Scrivere per sé stessi, scrivere per gli altri, scrivere per entrambi o scrivere per nessuno: alla fine “ciò che sostiene è la certezza che nella pagina resta qualcosa di non detto”. Con queste parole, sempre di Pavese, si riescono a intravedere i contorni del mistero della scrittura. La certezza che, in quel mistero, non tutto sarà sul foglio che scriviamo o leggiamo, ma che qualche parola sarà rimasta – deliberatamente o meno – impigliata sulla lingua, nelle tasche, tra i capelli.