Piero Ciampi o l’impossibile arte di diventare ciò che si è
“Je représente la fatalité qui m'élit.”
(Antonin Artaud)
Consapevole dell’inutilità di ogni volontaria commemorazione, vorrei dare avvio a questa lacunosa e confusa meditazione attorno a Piero Ciampi lasciando al suo profilo lungo e smilzo, di poeta smunto dalla retta fede in sigarette e vino, il compito di evocare la sua opera e, dunque, la sua vita; perché in Piero Ciampi opera e vita tendono a scontrarsi a tal punto da arrivare a coincidere.
Tra le sue apparizioni televisive, reperibili nei campi elisi di Youtube, ce n’era una che colpiva in modo particolare, per la chiarezza con cui la sua figura riusciva ad imporsi, malgrado il filtro menzognero dei riflettori televisivi (non sono riuscito a reperire il video completo in buona qualità che ricordo di aver visto: ci si accontenterà di questa mia reminiscenza). Erano i primi anni Settanta e Ciampi fu chiamato da Aznavour ad intervenire nella trasmissione televisiva “Senza Rete”, che andava in onda su Rai Uno, condotta in quella puntata da un Paolo Villaggio sforzatamente esuberante. All’apparire sul palco di un poeta di strada dall’andatura incerta, refrattario alle vacue musichette del varietà, Paolo Villaggio esorta il pubblico ad incoraggiare Ciampi «perché ha paura» e lo invita poi ad avvicinarsi al microfono e a parlare guardando in macchina, guardando il pubblico. Piero, a scanso di equivoci e guardando in faccia Villaggio, chiarisce non trattarsi di paura, piuttosto di imbarazzo, dacché «sono venuto qui per cantare una canzone - dice trattenendo un sorriso amaro – e mi sembra che questo dica tutto». Non è lì per ciarlare o fare spettacolo, è lì per cantare una canzone. Di lì a poco avrebbe dato voce a “Tu no” - tratta dall’album “Piero Ciampi”, uno dei vertici della sua opera, uscito nel 1971 - e lo avrebbe fatto a braccia conserte e spesso ad occhi chiusi.
«Se le pedane sono piene/di scemi che si muovono», l’anarchica lezione di Piero Ciampi credo sia testimonianza di cosa voglia dire offrire se stessi attraverso la propria arte, senza ammiccamenti o sbrodolature da giullari di corte. Ciampi era un vagabondo, dall’animo errante e imprevedibile, e come tale sgradito ai palinsesti, agli ingessati copioni e alle istruzioni per l’uso, a fronte di una vita d’artista vissuta con radicale libertà, dolorosamente improvvisata, sputata addosso alle regolette di un mondo dal quale fu sovente rifiutato (salvo poche, ma importanti eccezioni). Quest’anelito alla difficile libertà dell’io umano e artistico pare essere in Ciampi soverchiante, indisponibile a ogni concessione di sorta, e la pagherà infatti con l’isolamento nel panorama musicale italiano.
Si pensi a un brano celebre come “Adius”, al suo singolare impasto di lirismo e sguaiataggine, in bilico tra disperato amare e insolente sfanculare: «la tua assenza è un assedio» si risolve in «sai che bel vaffanculo che ti porti nella tomba… perché io sono bello, sono bellissimo», dando sincera voce alla contraddittorietà dei sentimenti umani e al rifiuto dell’indifferenza imperante senza infingimenti, senza pose. Col suo parlato lirico e sgangherato, grave e scapigliato, l’idea poetica e musicale di Ciampi tende alla ricerca di una teatralità della canzone che metta in scena, con la violenza e la grazia della parola pesata, il dramma tragicomico della vita, della sua prima di tutto.
Come la sua esistenza, Ciampi scompagina la canzone italiana e la riadatta ad un’esigenza poetica personalissima, supportato, nel corso degli anni Settanta, dalla perizia musicale del suo storico collaboratore Gianni Marchetti, grazie al quale riuscì a sviscerare il suo libertario istinto creativo nei migliori risultati della sua produzione risalenti a quegli anni: il già citato “Piero Ciampi” (1971), “Io e te abbiamo perso la bussola” (1973) e la raccolta “Andare Camminare, Lavorare e altri discorsi” (1975).
«È perché è solo un artista/che l'hanno preso per un egoista», scrive Ciampi - in “Ha tutte le carte in regola”, uno dei suoi testamenti spirituali - riferendosi a quelle due sole donne che diceva di aver amato davvero.
Nella tentazione continua e dilagante dell’impegno sociale o morale, tra le strizzatine d’occhio e le genuflessioncelle di artisti alla corte di qualche istituzione culturale pubblico o mercato, Ciampi ebbe il coraggio di essere egoista, di scrivere per sé e di sé soltanto, d’inoltrarsi nei sentieri impervi della singolarità. Liricamente autoreferenziale - come solo i più grandi autori sanno esserlo - Ciampi era e rimane al di fuori di ogni territorializzazione politica, artistica e culturale. Scelse la via dell’erranza, dello zingaro vagabondare, tra Livorno e il mondo (la Francia, la Svezia, l’Irlanda…); sciupafemmine e virtuoso dei vizi, poeta inquieto, sfuggente maschera bohemien di un’irrequietudine vissuta nella sua radicalità; perseguì in modo intransigente il suo istinto creativo e il doloroso orientamento della propria vita verso l’esaltazione di sé nello sperpero e nell’oblio.
Piero Ciampi è forse quel “Cristo tra i chitarristi” di cui lui stesso cantò, che «corre, anela, sta.», sotto ai cui piedi c’è il deserto e «che sale stanco/e senza scampo/una salita». Questo garbuglio tra l’opera e la vita che in Ciampi sembra essersi realizzato lo pone nella rosa dei non beati che vissero la propria vocazione come destino più che come talento, che tentarono attraverso i pesanti attrezzi concessi loro di dissodare l’arida terra del vivere comune alla ricerca di una profondità poetica e umana per quanto possibile aderente all’oscurità originaria e, perciò stesso, reietta.