Quel banchiere, un vero mecenate! “Raffaello e l’antico nella Villa di Agostino Chigi”
Pingui uomini seri e incravattati, scaltri, formatisi in prestigiose università europee dalle rette astronomiche, parlanti linguaggi tecnici, farciti di numeri e anglicismi. Nell’immaginario collettivo il banchiere è un burocrate, talvolta sinistro, personaggio del quale diffidare, pronto a fare meramente i propri interessi e poco incline all’arte e alla bellezza (“coi cuori a forma di salvadanai”).
Basta rivolgere lo sguardo al passato però, e si comprenderà come il banchiere sia una figura di capitale importanza per la cultura italiana e per l’Umanesimo. Agostino Chigi, munifico banchiere e imprenditore senese arricchitosi grazie al monopolio dell’allume di Tolfa (essenziale al tempo per le tinture e le conce delle pelli), fu uno dei più importanti mecenati del Rinascimento, uomo colto e raffinato, amico e committente di Raffaello Sanzio. E proprio su questo legame filiale si concentra la mostra “Raffaello e l’antico nella Villa di Agostino Chigi” inaugurata il 6 aprile scorso – il giorno della morte del Sanzio – e visitabile fino al 2 luglio presso la Villa Farnesina a Roma. L’esposizione chiude il “Trittico dell’Ingegno Italiano”, ideato dall’Accademia Nazionale dei Lincei per celebrare tre geni della cultura di tutta l’umanità negli anni di alcuni importanti centenari (in ordine, Leonardo da Vinci, Raffaello e Dante).
Curata da Alessandro Zuccari e Costanza Barbieri, l’esposizione ha il grande merito di ricostruire, seppur parzialmente, la ricchissima collezione d’arte antica di Agostino Chigi, nel luogo originario per cui era stata pensata. Dal momento che le vicende storiche hanno portato alla dispersione dell’importante collezione, frammentandone l’unitarietà, questa operazione sancisce qualcosa di molto prezioso, riportando a casa raffinati cammei, monili, gemme, vasi – quello draghiforme è incantevole – medaglie e aggraziate sculture classiche. Importanti prestiti arrivano da Dresda, Vienna, Napoli, Firenze e dai Musei Vaticani, per provare a restituire anche solo una parte dello stupore che doveva suscitare la villa di Agostino Chigi, Farnesina dal 1579.
Oggi, cinta d’assedio dal traffico del Lungotevere e dai bagordi trasteverini (chiassosi ed ebbri ospiti di Giovanni Caboto), si fatica ad immaginare il locus amoenus che doveva accogliere Raffaello e i grandi umanisti e letterati che la frequentavano (tra cui Blosio Palladio, raffinato poeta autore di un poemetto di 475 esametri che celebrava la villa del banchiere).
L’intuizione di riaprire la Loggia di Psiche che affaccia sul giardino e di far cominciare il percorso espositivo dall’ingresso originario ha una grande efficacia. Il visitatore si immerge subito in uno spazio abitato da bellissimi e conviviali dei, adornato da voluttuosi cucurbitacei, sotto al quale trovano posto due sculture eccezionali: la Psiche Capitolina, assurta a logo della mostra, e l’Eros Farnese. Posizionate anticamente nel giardino e oggi poste con perspicacia curatoriale nella Loggia, in perfetto dialogo con gli affreschi della volta, le sculture dimostrano come Raffaello abbia studiato la statuaria classica, inserendo anche citazioni palmari da sculture antiche nei suoi affreschi.
La mostra pone l’accento proprio sulla svolta classicista dell’artista, avvenuta intorno al 1512, quando l’artista intensificò lo studio delle antichità con un’attenzione e una passione crescenti che lo porteranno a scrivere la celebre lettera assieme a Baldassare Castiglione indirizzata a Leone X (“Quanta calce si è fatta di statue e d'altri ornamenti antichi!”). Al secondo piano, tra le Prospettive dipinte e poi incise a graffito dai Lanzichenecchi, trova posto l’Arrotino, al tempo anch’esso parte della collezione Chigi, presente in mostra con un calco della gipsoteca della Sapienza poiché l’originale della Tribuna degli Uffizi è considerato inamovibile. Sullo stesso piano cinquecentine, stampe, dipinti e gioielli raccontano il sitibondo desiderio di bellezza del banchiere dei papi.
In queste settimane villa Farnesina torna ad essere la Villa di Agostino Chigi, con le mirabilia gelosamente acquistate ed esposte nella sua dimora transtiberina, e gli affreschi della sala di Galatea che rifulgono nuovamente gli ori e tutti i pigmenti – anche il rarissimo blu egizio – grazie agli ultimi restauri recentemente terminati.