Sulle orme di Guccini, Terzani e Collodi
I grandi artisti sono in grado di raggiungere tutto il mondo con le loro opere, ma non con i luoghi in cui hanno vissuto, che spesso restano sconosciuti alla maggior parte delle persone. “Voglio provare ad andare a Pavana per incontrare Guccini”, mi dice Claudio una sera d’agosto. “Lì vicino abita anche Folco Terzani, il figlio del giornalista”, aggiunge, “mi piacerebbe conoscere anche lui”. Vivono entrambi in Toscana, immersi nel verde dell’Alto Appennino. Ma per provare a incontrarli bisogna andare in punta di piedi. Ed è per questo che decidiamo di intraprendere un cammino. Punto di partenza Pistoia, poi Pavana, Orsigna e infine Collodi, per vedere ciò che resta del libro di Pinocchio. Non iniziamo il viaggio con l’idea di trovarli e conoscerli, e forse è proprio per questo che scopriremo molto di più.
A Pistoia incontriamo subito l’eredità di un grande artista: il pulpito di Giovanni Pisano nella Chiesa di Sant’Andrea. “Non ce ne sono altri come questo”, commenta Simona, laureata in Storia dell’Arte. Anche Claudio lo è, e ci spiega il motivo dell’unicità di quest’opera: “Ha totalmente rivoluzionato il concetto di altorilievo”, spiega, “l’ha reso tridimensionale”. Ai piedi delle quattro colonne che lo sorreggono, il nostro compagno di viaggio Riccardo nota un leone che addenta un cavallo. “Perché questa scelta?”, chiede a Simona. “Il leone rappresenta Dio”, spiega la ragazza, “mentre il cavallo è il peccato. Significato simbolico? Se tu ti discosti dalla retta via, quella è la punizione. Di questo tipo di rappresentazioni con il leone se ne vedono molte nelle facciate delle chiese”. Lasciamo il pulpito di Giovanni Pisano per andare a cena: ci aspetta la zuppa del carcerato, un piatto tipico della zona. Cos’è? “Avanzi della carne”, ci dice un signore di posto. Che poi inizia a raccontarci le origini: “Vicino al carcere di Pistoia c’era un macello. E la carne che avanzava la bollivano e la davano ai carcerati”. E così anche noi assaggiamo questo piatto delle prigioni. “Oggi viene marinato per oltre otto ore con diversi aromi”, continua il signore, “e ognuno ci aggiunge gli odori che vuole per renderlo più saporito”. Decisamente un piatto che rischia di fare il tuo palato prigioniero della sua bontà. Quello che ci vuole prima di iniziare il cammino.
Per arrivare a Pavana, il paese dove vive il cantautore Francesco Guccini, dobbiamo prima passare per Spedaletto. A dispetto del nome, non c’è nessuno spedale in questo paese. “Ci sono vari posti in Italia con questo nome”, ci dice un signore del luogo, “qui passavano i commercianti e si fermavano a ricaricare le energie. In questo senso va inteso ‘Spedaletto’”. Il paese è un vero e proprio gioiello. Non più di sei case circondano una chiesa con un campanile acuminato. Intorno un verde intenso, boschivo. Non prende il cellulare qui, si è totalmente isolati ed è più facile entrare in contatto con le persone. Arrivati all’unica piazza, troviamo dei signori fuori a un ristorante. E chiediamo loro se conoscono Guccini. “È stato qui qualche giorno fa per il suo compleanno”, ci dicono, “viene spesso”. Uno di loro racconta che, in alcune occasioni, l’ha visto con il fiasco di vino sotto il tavolo. Di sicuro, uno a cui piace bere. Ma adesso che l’età avanza, ci dicono anche che sta più attento. “Mangia arista di maiale sott’olio”, ci dice il proprietario, “e beve il Gewurztraminer (cantina St. Michael-Eppan 2019)”. In molti ce lo descrivono come un uomo apparentemente burbero, “un orso”, ma che in realtà è gentile, socievole ed è in grado di parlare di tutto. “Sa qualsiasi cosa”, dicono i paesani. “Che tu parli di bambole o di cucito, ti sa dire qualunque cosa. Cosa rappresenta per noi? Per noi è Francesco, un amico”. Un amico che sicuramente ha portato lustro a queste zone, soprattutto grazie ai diversi libri che ha scritto sulla sua infanzia in queste zone. Ma quella di Guccini non è l’unica storia interessante che ascoltiamo. “Lo conoscete il signore che si è arrampicato sul campanile?”, ci chiede una signora, “aspettate che ve lo presento”. Arriva un uomo alto, in là con gli anni, ma con il fisico definito. Indica il campanile e dice: “Sì, mi sono arrampicato fin lassù da piccolo, ero un bel bischero”. E poi ci racconta un aneddoto, ma di un altro cantante italiano. “Stavo lavorando al casello, quando si ferma una macchina guidata da uno con i capelli neri. Un volto noto. Chi era? Bobby Solo. Mi dice: ‘Purtroppo non ho i soldi per pagare il casello’. Allora io gli dico: ‘Se mi canti una canzone, ti lascio passare’. Si mise a cantare Una lacrima sul viso. Fantastico”. Finito di parlare se ne va, come i grandi attori quando escono di scena. Ma protagonista è ancora il proprietario del ristorante, che inizia a fare battute e a scherzare. Poi, a un tratto, ci dice: “Grazie per essere passati, mi ha fatto piacere. Ma sapete come si dice qua? È ora che ve ne andate fuori dai coglioni!”. Ridiamo di gusto. La strada per Guccini ci attende.
Non è a Pavana che è nato Guccini (di Modena), ma qui è dov’è cresciuto e adesso vive. Un posto con una vista stupenda. Un paese a 491 metri d’altezza immerso in una valle completamente verde, quella della Limentra occidentale. Sotto passa il Reno, che noi seguiamo per arrivare. Ma non sappiamo dove sia casa di Guccini, allora ci fermiamo a chiedere a un bar. Fuori ci sono alcune persone che stanno parlando del cantante Claudio Lolli. “Tu lo conosci?”, chiede uno all’altro. “No”, risponde il secondo. Claudio (il compagno di viaggio) interviene: “Io sì”. A quel punto un signore impugna la chitarra e inizia a cantare: “Vivo tutti i miei giorni aspettando Godot, Dormo tutte le notti aspettando Godot, Ho passato la vita ad aspettare Godot” e poi va dritto alla fine “Non ho mai agito aspettando Godot, Per tutti i miei giorni aspettando Godot, E ho incominciato a vivere forte, Proprio andando incontro alla morte”. Le sue dita scorrono veloci sulle corde, la sua voce tocca tutti quelli che stanno attorno e ha una luce particolare che brilla nei suoi occhi. “Roberto è quasi cieco”, mi dice un suo amico, “e ha la sindrome di Tourette. Ogni volta mi commuovo pensando allo sforzo che fa per trattenersi”. Come noi, anche loro sono in cerca di Guccini. Ci dicono che è difficile incontrarlo, perché con la pandemia si è chiuso molto e non lascia più entrare a casa. Forse non lo vedremo, ma intanto vive in questa piazza. Roberto continua a suonare e le persone attorno iniziano a cantare. Il concerto è qui.
“E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano
che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano:
ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite,
sembrava avesse dentro un potere tremendo,
la stessa forza della dinamite”
Con la locomotiva di Guccini, la voce graffiante di Roberto corre lungo i binari tracciati dalle corde della chitarra. Tutti cantano a squarciagola. E poi dice: “Voglio far sentire una canzone a questi ragazzi”. E lì rimaniamo tutti incantati. “Mio re, ti ho portato un sacco pieno di esperienza perché guidi la tua vita. L’esperienza saprà far di te il più potente re”, dice in questa strofa il servo al re. Ma questi risponde: “Non la voglio, non mi serve l'esperienza, puoi gettarla in fondo al mare. L’esperienza che mi porti è un brutto libro, Tutto da dimenticare”. Ma alla fine il sovrano cede e comprende: “Prenderò la tua miseria, vecchio servo, ne farò la mia esperienza. Prenderò la tua gran rabbia, vecchio servo, ne farò il mio solo affetto. Prenderò, prenderò la tua speranza, vecchio servo, ne farò la mia allegria”. E così conosciamo nuove persone e nuove canzoni. Il nostro bagaglio musicale si è arricchito. Ma una persona non condivide tutte quelle strofe. “È musica politicizzata. A me non piace”, dice il giovane proprietario del bar. Gli chiediamo se Guccini passa ancora da queste parti, ma lui risponde secco: “Sono vent’anni che non viene più qui”. Scopriamo che i due hanno litigato per la gestione della pro loco di Pavana, avendo visioni differenti. Vogliamo saperne di più, allora ci avviciniamo alla casa del cantautore, che è proprio sulla statale.
Due villette, quattro mura bianche e il tetto spiovente che guida la vista sulla valle. “È qui che abita”, ci dice il suo autista William. “Provate a chiamarlo, ma questo periodo è difficile che risponda”. Claudio non si tira indietro e prova a far sentire la sua voce. Ma nessuna risposta. Mentre lui cerca di capire dov’è il citofono, vedo da una finestra una sagoma di una mano muoversi. Sembra che stia scrivendo. “È lì”, penso, “sta scrivendo”. Chiamo Claudio. “Guarda, è dentro”. Anche un’altra persona crede lo stesso; ma poi mi accorgo che è solo il riflesso di un ramo mosso dal vento. Anche se solo una suggestione, è stato comunque piacevole immaginarlo. Continuiamo a provare, ma niente. Non abbiamo incontrato Guccini, ma abbiamo ottenuto molto di più. Abbiamo vissuto e cantato alcuni dei suoi capolavori e scoperto nuovi autori attraverso le persone che lo conoscono e che lo ammirano. Nei loro occhi abbiamo visto lui e nelle loro parole abbiamo sentito le sue canzoni. Ora dobbiamo invece trovare le parole di Tiziano Terzani.
Sulla strada per Orsigna notiamo una casa piena di ortensie. Ce ne sono ovunque. Un tripudio di fiori e di colori. C’è un signore che ci sta lavorando. Dopo avergli rivolto i complimenti, gli chiediamo la direzione. “Basta proseguire avanti. Siete qui per Terzani? Io lo vedevo sempre passare su queste strade in vespa”. Avvicinandoci iniziamo a sentire i luoghi dove ha vissuto. Molti dei quali ha condiviso con Guccini. Claudio si è portato dietro l’ultimo libro che il cantautore emiliano ha scritto, Tralummescuro, e ce ne legge alcuni passi. “Venivamo nei bozzi, piccole anse dei fiumi, a nuotare. Quella era la nostra estate. Quello era il nostro mare”. Anche noi ora siamo in uno di questi. Con la fatica del cammino abbiamo deciso di farci un tuffo nel torrente. L’acqua è fredda, ma il paesaggio è stupendo, con le rocce intorno che sembrano sul punto di cadere. Siamo a Molino del Pallone, un posto che per alcuni è pieno di ricordi. “Ho 85 anni”, ci dice una signora, “ho passato tutte le mie estati, erano le mie vacanze: che gioia”. Ci sono ancora ragazzi che fanno il bagno, si divertono e prendono il sole. Se pensiamo all’estate, oggi ci viene subito in mente il mare con i suoi colori incredibili e il sole forte, che penetra nella nostra pelle. Al massimo pensiamo al lago. Eppure il fascino del fiume è incredibile. Terzani, ne l’indovino mi disse, scrive: “Sul fiume puoi vedere il passato nell’acqua che viene e il futuro nell’acqua che c’è dopo”. Il tempo qui si confonde, non si ferma ai tuoi piedi, non viene a sbatterti contro ma passa, senza sosta. E tu lo puoi vedere tutto perché non c’è un orizzonte. Dipende solo da ciò che scegli di guardare. E i nostri sguardi, ora, sono rivolti verso Orsigna. È li che dobbiamo arrivare, e non sarà facile.
Sono ben 7km di salita, a piedi. Quasi arrivati in cima, ci fermiamo a una fontana prima del paese, con poche case di contorno. Un signore esce e ci si avvicina. Scopriamo che quello era il posto dov’è cresciuto Terzani. “Abitava in quella casa”, indica il signore, “ci veniva in villeggiatura da piccolo con la famiglia. Giocavamo spesso a nascondino in questi luoghi. Ho bei ricordi, Tiziano era un amico”. Insieme andavano anche al lago Scaffaiolo. “È distante, ci vogliono 4-5 ore. Quando partivamo tardi, ci fermavamo a dormire dove capitava, e poi proseguivamo. Mi ricordo che una volta Tiziano si è preso pure la polmonite per fare il bagno nel torrente”.
Mancano pochi metri al paese. È qui che hanno girato un film ispirato a un libro di Terzani, La fine è il mio inizio, dove il padre racconta al figlio la sua vita. "Se dal nostro prato guardi questa valle meravigliosa e intatta”, si legge nel libro, “capisci che è stata una sponda che mi ha aiutato ad avere quello che io ho sempre cercato: un altro punto di vista. Per me l'Orsigna è questo. E mi piace scomparire qui, perché c'è un'anima che io sento, perché l'ho vissuta. Questa è la mia Himalaya. Qui, in questo posto dove sono arrivato da bambino, ho sentito la magia della vita in generale e la magia della natura”. Di Himalaya, però, non vediamo ancora nulla, o forse non riusciamo ancora a vedere bene. Sulla piazza troviamo un bar, un alimentari e qualche persona. Nulla di più. Chiediamo la direzione per l’albero con gli occhi. Di cosa si tratta? Un luogo pieno di magia e presto scopriremo perché. “Salite sull’apetta, vi ci portiamo noi”. Giovanni mette la sedia nel vano posteriore e noi ci accomodiamo attorno a lui. “L’albero con gli occhi prima era vicino a casa di Terzani”, ci spiega, “ma ora l’hanno spostato perché ci andava troppa gente e disturbava”. Cosa rappresenta? “Un giorno Tiziano portò il figlio nella natura e pose due occhi di vetro sopra la corteccia di un albero. Poi gli disse: ‘Ricordati di rispettare la natura Folco, perché anche gli alberi hanno un’anima’”. Mentre passiamo con l’ape, Giovanni ci indica una casa: “È qui che abita Folco. E quelli sono i suoi figli”. Corrono, ridono e si divertono. E poi ci guardano. Claudio rimane stupito: “Quello più grande ha lo stesso sguardo del nonno! Incredibile”.
Saliti per la strada impervia, arriviamo su in cima. Ci manca ancora un sentiero per arrivare all’albero. Ci avviciniamo con calma, perché c’è un pubblico silenzioso attorno all’albero, un ciliegio. “Sono gli ometti di pietra”, dice il nostro compagno di viaggio Riccardo. Costruzioni con i sassi che, per la loro struttura, somigliano a figure umane. Siamo in un santuario della natura, un luogo mistico e spirituale. Sull’albero diversi occhi ci guardano, ma dietro guardiamo noi il paesaggio e contempliamo la magnifica valle, sentendo le bandiere tibetane appese ai rami sventolare. Ne leggiamo alcune, ma una ci colpisce: “Quando lo studente è pronto, il maestro compare”. Quello che ci aspetta.
Ritornando verso valle vediamo la casa dove abita Folco Terzani. “Non me la sento di andare”, dice Claudio, “non vorrei disturbarlo”. Ma io e Riccardo non ci tiriamo indietro. “Abbiamo fatto tutta questa strada, proviamo a vedere se è in casa”. Lo troviamo sulla porta, come se ci stesse aspettando. “Da dove venite?”, ci domanda. “Siamo venuti a piedi da Pistoia. Siamo sulle orme di suo padre, Tiziano”. “Venite”. Ci accoglie nel giardino della sua casa e subito ci dice: “Se volete, potete togliervi le scarpe. Io vado sempre scalzo”. Ovunque? “Tranne quando devo andare in banca a Firenze, altrimenti giro sempre senza. Così posso sentire il suolo, la pianta del piede che si aggrappa al terreno. Essere a contatto con la Terra”. Capiamo subito che non sarà un incontro come gli altri, ma speciale. “Sedetevi qui”, dice. Troviamo posto su di una piattaforma in legno. Affianco abbiamo una statua di una donna nera, è tutto molto orientale. “Mentre state qui devo fare un lavoro”, ci avverte. Inizia a prendere con la mano del composto marrone da un vaso. Gli chiediamo: “Possiamo aiutare?”. “Non so se la mano va dove vuole andare”, ci risponde. E noi, incuriositi, poniamo un’altra domanda: “Cos’è?”. “Escrementi di mucca, ora li passo su questo braciere per rinfrescarlo”. Ai nostri piedi c’è un quadrato di terra. “Sto preparando il braciere per il tramonto”. Molti di voi vorrebbero magari vedere qualche foto, ma lui ci dice subito: “Niente macchine fotografiche”. Lo scriveva anche suo padre nel libro L’indovino mi disse. L’abuso di foto toglie bellezza alle opere, che perdono d’incanto. Ma la nostra magia, invece, continua. “Venite adesso, vi porto nel mio ufficio”. Se non fosse che nulla è registrato, molti potrebbero credere che sia frutto d’invenzione o aggiustamento in ciò che scrivo: eppure non c’è alterazione, è davvero avvenuto così, come se fosse tutto già preparato. “Appena vi ho visti ho capito che potevate apprezzare tutto questo”. Ora siamo dentro la casa tibetana. “L’ha costruita la produzione del film perché nell’altra non avrebbero potuto girare”, ci spiega. Dentro è piena di rimandi alla cultura orientale. Ci sediamo su un materasso e guardiamo fuori un paesaggio meraviglioso. Le colline della valle formano un profilo ondoso. Non sembra di essere in Italia. “Questo è il mio Hymalaia”, dice. E lui li conosce quei luoghi, perché c’è stato. “Per un periodo sono stato là con gli asceti. Ho meditato e ho imparato molto”. Ma come è arrivato fin lì? “La mia vita è cambiata in ascensore. Ero a New York, avevo appena superato il colloquio per lavorare alle Nazioni Unite senza troppi problemi. Mi ero infatti laureato in Inghilterra, so l’inglese, il cinese e altre lingue. Però, mentre saliamo i piani, una funzionaria mi guarda e mi dice: ‘Tu cosa ci fai qua? Appartieni ad altro, questo mestiere non fa per te’ e così ho deciso di cambiare la mia vita. Cosa ti ha detto mio padre? ‘Se è questo che senti, va bene. Vai e scopri’. Prendo allora un biglietto per raggiungere Madre Teresa di Calcutta. Dovevo stare due settimane, ma sono rimasto un anno. Non pensavo di poter amare un lebbroso che sta per morire. E invece, lì, è stato possibile. Come? Stavo lavando i panni sporchi a una persona stava per morire e non ne vedevo il senso. Allora ho chiesto a Madre Teresa: ‘Perché lo facciamo?’ Fagli vedere un ultimo atto di amore”. E dopo? “Torno in America e mi trasferisco sull’altra costa, avevo bisogno della natura e l’ho trovata in California. Li ho conosciuto la mia prima moglie. Ora mio figlio fa surf”. E i suoi due nuovi figli? “Li ho avuti dalla mia seconda moglie che ho incontrato in Indonesia”. Ma ora le parole non servono più. “Venite, è tempo di uscire. Il sole sta calando”.
Ci sediamo attorno al braciere. Folco accende il fuoco e poi prende una pigna. Un odore di incenso penetra le nostre narici. Il sole sta per scomparire dietro la montagna. “Come la punta di una candela”, dice Folco, “che piano piano si spegne”. Non c’è più luce nella valle, avvolta da una distesa di alberi. Ed è terminato anche il nostro tempo. “Papà, è pronta la cena”. “Certo Cosimo, arrivo subito”. Mentre se ne va, il figlio tira una palla che rotola verso la discesa. Folco si alza in piedi, scatta e in un baleno la riprende. Un gesto atletico degno di nota. Scopriremo solo dopo che ha anche corso diverse maratone, tra cui anche quella di Roma completamente scalzo. Mentre usciamo le sue parole ci ronzano in testa. “Ogni giorno mi alzo insieme al sole e lo vedo sorgere. Sento tutti gli animali che iniziano a cantare. È la loro preghiera verso la natura”. Che lui ha molto a cuore. Sta cercando persino di riportare l’orso a Orsigna perché, “come potete intuire dal nome, una volta popolavano la valle”. Certo, vivere in quei posti è anche difficile. “Una volta, d’inverno, sono dovuto uscire dalle finestre di sopra per quanta neve c’era”. Una vita anche più lenta, a piedi. ;a, forse, proprio per questo anche più intensa. Di sicuro il nostro incontro con lui lo è stato.
Non meno interessante è la tappa a Collodi. Quali tracce però si possono ancora trovare di uno scrittore vissuto tra il 1826 e il 1890? “Carlo Lorenzini veniva qui in villeggiatura, dove passava l’estate dagli zii”, c’è scritto su un cartello all’inizio del paese. Il borgo si estende in verticale lungo una collina, come se le case avessero negli anni scalato la collina. All’inizio c’è Villa Garzoni, un complesso che merita una visita per i suoi giardini. L’interno, invece, non è visitabile. Ci diranno solo dopo perché. Prima di salire, passiamo all’unico fornaio in zona. “Siete in cerca di Pinocchio?”, ci dice la proprietaria. Una signora bionda, alta e bella: una fata. “Qui è dappertutto. Ma quello che più conta è la morale. Prendete della frutta?”. Le chiediamo delle pesche e lei ci dice: “La conoscete la storia delle tre pere di Pinocchio?. Be’, è più attuale che mai. Lui non voleva mangiarsi le bucce perché era schizzinoso, ma poi ha finito per mangiarsi anche il torsolo. E anche di questi tempi, dove non c’è grande guadagno, bisogna sapersi accontentare di quello che si ha”. Quell’incontro ci stuzzica l’immaginazione. Con Claudio e Riccardo chi domandiamo: “Perché non proviamo a cercare altri personaggi che somigliano a quelli delle avventure di Pinocchio?”.
Saliamo su in paese. Molte case hanno una targa con i personaggi del romanzo. “Il grillo parlante, il gatto e la volpe, Mangiafoco“. E Geppetto? Giriamo un vicolo e, in mezzo alla strada, troviamo un signore che sta lavorando una porta in legno. “Stiamo cercando i personaggi di Pinocchio tra le vie del paese, lei sembra proprio Geppetto!”. Il signore ride e ci comincia a raccontare la storia di Collodi. “Villa Garzoni? Ci avevano girato anche diversi film. Ora è chiusa da 15 anni. È di proprietà di un imprenditore milanese. Ma, se vuoi, la puoi comprare per 12 milioni”. Com’è dentro? “Spoglia. La contessa aveva venduto tutti i mobili interni perché scommetteva”. Affianco alla villa c’è un edificio abbandonato. Chiediamo spiegazioni. “Era una cartiera. Qui davano lavoro a tante persone. Ce n’erano oltre 100 nella zona. Ora sono davvero poche”.
Di Carlo Lorenzini cosa è rimasto a Collodi? Poco nella città toscana, ma molto in giro per il mondo. Le sue avventure restano tra i libri più letti; e Pinocchio è un simbolo mondiale, ovunque riconosciuto. E cosa è rimasto a noi di questo cammino ora concluso? Visitando i posti vissuti da Guccini, Terzani e Collodi abbiamo conosciuto nuove storie. E visto come l’ambiente modella le persone e i loro lavori. Ascoltare le loro canzoni o leggere i loro libri dopo aver visto questi luoghi, per noi, non sarà più lo stesso. Ora sappiamo perché in paesi come Orsigna, Pavana e Collodi sono nati dei capolavori.