Kjell Westö - Miraggio 1938
Traduzione a cura di: Laura Cangemi
Casa editrice: Iperborea
Edizione: 2017
Pagine: 426
Un uomo spezzato è un uomo morto
Miraggio 1938, il romanzo vincitore del Premio del Consiglio Nordico nel 2014, è approdato in terre nostrane. Grazie al lavoro della casa editrice Iperborea (l’unica italiana ad occuparsi di letteratura scandinava) lo scrittore e giornalista finlandese (di lingua svedese) Kjell Westö ha finalmente occupato un posto nelle librerie italiane. Finalmente, sì: perché Miraggio non è certo la sua prima fatica letteraria: una serie di ben 5 romanzi (anch’essi ambientati nella Helsinki del XX secolo) lo hanno preceduto nella narrativa consacrando l’autore a “fine interprete dei grandi problemi storico-politici del nostro tempo e dell’influenza che questi hanno avuto nei pensieri e nella vita delle persone.”
-Iperborea-
Io ho letto questo libro tutto d’un fiato: una volta iniziato, senza che me ne rendessi conto, era già finito. E leggendo non smettevo di considerare che leggevo sì un nuovo autore, pur tuttavia attraverso le scelte e le competenze di un traduttore. Mi correggo, di una traduttrice. Si tratta infatti di Laura Cangemi, una donna che scopro essere anche interprete di conferenza e studiosa piuttosto rinomata nell’ambito editoriale. Mi domando se sia stata lei stessa a proporre una traduzione per il romanzo o se l’iter editoriale le abbia commissionato il lavoro che avremmo altrimenti non conosciuto.
Fortunatamente, Miraggio è una realtà editoriale anche italiana.
Non ho potuto fare a meno di introdurre questo dato perché molte sono state le scelte sintattiche e lessicali (a me assolutamente oscure) che mi hanno fatto domandare quale fosse la parola svedese della stesura originale.
Come quel spezzato che ho estrapolato dal romanzo per citarlo in epigrafe. È una parola, questa, che viene affidata alla bocca di uno dei tanti esseri che popolano il romanzo e che, forse fra tutti, ne rappresenta il mastice: Joachmin Jary, brillante artista ebreo che entra ed esce dall’ospedale psichiatrico di Kopparbach, appena fuori Helsinki, dove lo tiene in cura Robert Lindemark, quello che un tempo fu il migliore amico di Thune, il protagonista.
Jory, dichiara che “un uomo può essere devastato dalle avversità, ma che finché non è spezzato la sconfitta non è mai definitiva. È la misura di tutto. Quando sei spezzato sei morto”.
Neanche a metà del romanzo, questa frase me ne ha suggerito il senso: alla vigilia del secondo conflitto mondiale, dentro un’Europa sempre più tesa e una Germania sempre più aggressiva (siamo nel 1938) la Finlandia era una giovane nazione custode di viscerali ferite sociali, politiche, storiche e anche geografiche, come del resto molte delle nazioni più grandi del continente. Tuttavia (e l’autore ne fa nota nella postfazione al romanzo) è attraverso la guerra civile del 1918, evento tanto breve quanto profondamente violento, che la Finlandia sancisce effettivamente l’indipendenza dalla Russia e diventa una Repubblica. È dunque materia della memoria collettiva finlandese, la consapevolezza di aver preso una forma da dei contenuti spezzati! Perché spezzate furono le famiglie, le vite in battaglia. Spezzati, come si vedrà con la Signora Wiik (dipendente nello studio legale di Thune) sono i sopravvissuti. Poco conta se vinti o vincitori.
L’ambiente in cui si muovono i personaggi è il normale vivere quotidiano. Thune, avvocato introspettivo, si reca a lavoro ogni mattina e tutti i giorni ricompone i pezzi del suo amore tradito da cui tenta fughe solitarie. Il club del Mercoledì, composto tra gli altri, dall’ormai assente Jory ed il suo medico curante Lindemark e che quasi diventa un personaggio a sé; come se quell’appuntamento mensile, sorto in una sfavillante e promettente gioventù, non fosse altro che l’ultima isola felice in mezzo al marasma e alla potente diffidenza del ’38. Un’isola cui approdare malgrado le diverse posizioni (politiche e sociali) dei suoi membri: un ebreo, due liberali (uno è Thune) un filo-nazista e un imprenditore. Ma si beve insieme e insieme si è al sicuro. O così dovrebbe essere?
Personaggio speculare, parallelo a Thune e tutto interno a sé è invece la Signora Wiik, tacita e solida come un lago ghiacciato: un abisso di mistero e silenzioso dolore. La narrazione è in terza persona e a capitoli alterni sposta i punti di vista tra capo e dipendente. Al lettore è permesso entrare nell’intimità dei personaggi, sebbene questi siano sempre un passo avanti e pertanto hanno una vita propria sempre da scoprire. E ce l’hanno proprio perché la loro storia, che sia detta o meno, è forte ad insinuarsi nel presente. E questo vale per ogni personaggio citato, compreso il Club del Mercoledì. Dunque si è sempre in allerta, si è incollati alle pagine: finché non se ne volta una, non si è voltato l’angolo e non si è visto, né saputo cosa c’è nell’altra strada. Sembra dunque vero che esista la soglia tra devastazione e fine e che altro non consista che in un sonoro (o silenzioso) “crack”. Che davvero debba rompersi qualcosa, un vaso, un’ora, un’alleanza, un essere. Che qualcosa debba accadere semplicemente, mentre tutto è già accaduto e si prepara a ri-accadere: fondamentalmente, la guerra.
Si ha forse per questa ragione l’impressione che ogni immagine fissata, ogni luogo, ogni appartenenza, tutto abbia il carico dell’onda che arrivando trascina via il quotidiano. Il lavoro del tempo che procura ferite e insieme le cura diventa parola, narrazione attenta e consapevole della mente di uno storico umanista.
Estremamente abile e meticoloso è infatti il lavoro di Westö nel coniugare la Storia umana alla vicenda intima, l’universale al particolare, fino a rivelare quanto è vero, per dirla con Brenda Chenowith (Six Feet Under) che “le cose che accadono lasciano un segno nel tempo, nello spazio, in noi.” Infatti, sebbene in quel particolare brano Jory alludesse alla fine di un attore (ed il brano stesso non sia che marginale) non ho potuto che intuire che ciò a cui stavo assistendo, di pagina in pagina, era lo scoprire i tasselli di un puzzle già dato.
Spezzato sì, ma ricomposto “and wrapped in plastic”, proprio come il corpo violentato di Laura Palmer, sì. Perché relativo era il dove portavano gli intrecci tessuti: il seguirne le direzioni era importante al fine ultimo di scoprirne le giunture, sollevare quel telo di plastica e rendersi conto che l’ariosità e la semplicità della sua costruzione altro non andavano a creare che un movimento verticale, verso il basso, come a verificare per ogni ferita, quanto profonda fosse la cicatrice.E su quel spezzato mi sono poi risposta che “sicuramente la parola originale suonerebbe un accordo a sorpresa”, come a sorpresa è stata ogni pagina, prima e ultima insieme per ognuna sfogliata.
Finito il romanzo e a distanza di giorni, non credo di essermi sbagliata.
Media Gradimento Pubblico e Critica: 8/10
*v. fonti in calce
altre recensioni
Anobii (4/5)