Tu l’hai mai vista, una giraffa? Di Irene Bonino, genealogie femminile fra centro e periferia

Tu l’hai mai vista, una giraffa? È alta come un palazzo e mastica foglie a tutto spiano con certi occhietti romantici e la lingua blu. Ha pure le antenne, come le lumache, ma è arancione a pois e ha un collo che buca le nuvole. Non c’entra niente con gli altri animali, è proprio fatta in un modo diverso. E la zia era così, guarda, né più né meno. Alla fine, col passare degli anni, anche mia madre era diventata una giraffa e, naturalmente, sei giraffa pure tu.

Il romanzo di Irene Bonino si presenta, nelle sue 192 pagine, quasi come una saga familiare che intreccia luoghi e tempi distanti - passato e presente, Italia e Stati Uniti - trasportando il lettore in un viaggio emotivo intergenerazionale. Sicuramente il tema trattato è molto sentito dalla scrittrice, come si evince dalla cura appassionata che pervade tutta la narrazione, rielaborando e ricostruendo vicende reali legate alla sua storia e le sue origini. Ogni personaggio, passaggio e contesto viene descritto in maniera sia minuziosa che sintetica. Il linguaggio, infatti, è semplice e diretto, con dialoghi secchi e precisi, che vanno dritti al punto.

Caterina ha venticinque anni e risiede in un paese di provincia, disteso in mezzo alla pianura, all’ombra della grande città, meta che la protagonista del romanzo ambisce a conquistare, per ottenere un lavoro e una vita migliore. La sua condizione familiare, relazionale e sociale, infatti, non è ideale. Con la morte del padre e della madre vive col nonno, un personaggio decisamente particolare. Il rapporto con lui aggiunge una dimensione dolente e profonda alla storia, rivelando come il sostegno familiare possa essere un potente motore di cambiamento, anche nell’apparente staticità di psicologie bloccate sul ricordo e sul trauma. Questi, infatti, ha l’abitudine di “infilare i suoi pensieri negli oggetti”, conservando tali reliquie, inevitabilmente rotte, sotto al letto, come a pietrificarle nel sonno.

Diceva che era un’installazione intitolata Il contrario di aggiustare. Quel contrario, diceva, non è rompere, ma non aggiustare. «Rotto è il contrario di intero. Aggiustato invece non c’entra niente: per quanto tu ti dia da fare, le cose rotte non tornano com’erano prima. Per avere gli oggetti interi, in pratica, bisogna non averli mai rotti.»

Il romanzo, nelle prime pagine, si apre con questa immagine potente, che annuncia lo status quo che Caterina vuole rivedere, non rifiutando questa eredità fatta di cocci e frammenti, ma cercando di andare avanti, accettando la precarietà che tale sforzo di emancipazione comporta con una certa amarezza, un’amarezza che traspare in filigrana fra le frasi e le parole che tessono la sua parabola. La narrazione del passato, con la storia della zia Minerva, arricchisce il romanzo di una prospettiva storica che aggiunge profondità al racconto. “La zia d’America” si impone come un personaggio mitico, la cui vita di ribellione e successo contro le avversità è narrata con vividezza e passione. Anche il personaggio di Kate, quasi il doppio di Caterina, abbreviata Cate, racconta il potere dei personaggi femminili di ricucire i brandelli di vite e storie divise, come faceva Minerva a New York lavorando con i tessuti, riuscendo a ottenere un successo professionale e personale.

 

Durante quei giorni Kate aveva raccontato che, quando era riuscita ad abbracciare Robert e a riunire la famiglia, la bisnonna Caterina aveva chiesto anche a Ernesto di raggiungerla: in quel modo tutto sarebbe stato, per la prima volta, intero. Ma lui aveva rifiutato e gli oggetti erano rimasti rotti, come la sua vita.

E come quella di tutti, aveva pensato Caterina. Di quasi tutti.

La forza del libro, infatti, risiede nella caratterizzazione figure femminili “plurali” che, con la loro determinazione e resilienza, emergono come veri pilastri della narrazione, anche quando parlano e appaiono poco, anche – e soprattutto – quando il loro ruolo sembra sfumato e marginale. La protagonista, Caterina, è un esempio lampante di questa apparente contraddizione: è discreta e quasi invisibile, eppure è un emblema di tenacia e dedizione. La sua lotta per realizzare i propri sogni nonostante le difficoltà economiche e la “facile scappatoia” offerta da Michele, un ragazzo bello e gentile, apparentemente risolto, mostra un andamento implacabile, che guarda al futuro, in avanti. Esattamente il verso contrario del lavoro di scavo e ricostruzione della scrittrice.

In conclusione, La giraffa non c’entra è un romanzo che celebra la forza delle donne e l'importanza delle radici familiari, che passa attraverso un atto di (ri)scrittura che restituisce un senso a un vissuto che si incarna nella vita di chi sopravvive, di chi porta avanti una storia collettiva rivendicando all’interno di essa un margine di autonomia. In questo senso, è una lettura che ispira ad aprire i cassetti della propria memoria privata per scorgere le tracce di un più grande discorso intergenerazionale, riconoscendo nell’inquietudine della protagonista le ansie e le contraddizioni che caratterizzano la sensibilità contemporanea.