La (tardiva) riscoperta di Perfect Blue, dopo anni di plagi e incomprensioni

Dal 22 al 14 aprile Perfect Blue, film del 1997, è stato distribuito nelle sale di molti cinema italiani. Si tratta di un’iniziativa coraggiosa e quanto mai interessate, unita a quella di rimasterizzarlo così da infondergli nuova vita, almeno nell’immaginario collettivo. Infatti, questa perla nera non ne aveva veramente bisogno, capace com’è di dimostrarsi oggi crudamente attuale in modo perturbante. L’opera prima del superbo regista nipponico Satoshi Kon, inoltre, nel corso degli anni e malgrado la precoce morte del regista a soli 47 anni, non è stata mai dimenticata dai suoi numerosi estimatori. Una veloce ricerca su Google lo può limpidamente testimoniare, con schiere di commentatori e recensori in estasi all’idea di vederlo primo al box office, superando di molto un guadagno di 100mila euro. Quindi cogliamo l’occasione di questo trionfo per rivedere e rileggere l’opera, soffermandoci sugli aspetti più critici e controversi del suo passato (in)successo.

 

 

Questioni di genere

Un ritorno inaspettato, breve ma non effimero quella di Perfect Blue. Non è un caso che questo film sia stato selezionato fra tutti i suoi, anche migliori, lavori per risorgere sul grande schermo. Lo ripetono tutti sul web in questi giorni, l’opera non smette di essere attuale, di ri-attualizzarsi nel corso di dinamiche sociali, e conseguenti contraccolpi psicologici, che sono più che mai esasperati dalle logiche del nostro presente sempre più schiavo dell’immagine ipermediata di una comunicazione schizofrenica.

La trama del film ricalca, in maniera molto sommaria, quella dal romanzo omonimo da cui è tratta, scritto nel 1991 da Yoshikazu Takeuchi, prendendo derive estrose e visionarie che mostrano la totale adesione del regista al mondo virtuale del cinema. Una giovane cantante, Mima, facente parte di una girl band di successo, le Cham, decide di emanciparsi, per costruirsi una nuova, e autonoma, identità. Allora lascia la musica per darsi al cinema, abbandona il mondo scintillante ed euforico delle idol giapponesi per darsi a quello più “serioso” dei drammi in tv. Una parabola esistenziale che pochi anni dopo, in Occidente, inizieranno a compiere i giovani volti dell’universo Disney, desiderosi di scappare da quel mondo di canzoncine e sorrisi, recidendo brutalmente (e traumaticamente) i legami col passato, percorso che anche oggi molti giovani sovraesposti all’universo social tentano di intraprendere. Il caso della protagonista, tuttavia, non sembra così problematico all’inizio, ma la calma è solo apparente, e presto l’intero film si rivelerà una spirale psichedelica di ossessione e violenza.

In questo viaggio allucinato la protagonista affronta le “questioni di genere”, citando Judith Butler, di un cinema che con sicurezza esplora registri formali differenti per scoprire un’identità più ricca e coerente nella molteplicità. Un discorso meta-filmico lo vediamo anche nell’ultimo film del regista, Paprika (2006), dove ancora una volta il ricorso all’universo onirico – del trauma, della paranoia, dell’incubo – non è mai fine a sé stesso, riuscendo a interrogare il medium, per esplorare le sue possibilità, spingendole al limite dell’immaginazione. Kon ci ricorda che non c’è liberazione senza ri-creazione, nel senso di gioia e invenzione continua, per far saltare in aria convenzioni e frontiere con la nonchanalce che solo gli spiriti ispirati possono esercitare senza cadere nel giogo di una ricerca sterile e autoreferenziale.

 

 

Ma è un cartone! È per ragazzi!

Perfect Blue, purtroppo, subisce lo stigma che colpisce molte creazioni nipponiche animate che non rientrano nei canoni adolescenziali di anime e altri prodotti di intrattenimento, ma che come tali vengono giudicate, in modo spesso sommario e snobistico, da persone anche colte e appassionate di cinema. Certi condizionamenti, rispetto ad un cinema fatto di disegni “finti” e non di attori “reali”, sono difficili da eradicare. Quindi a parte a Venezia, dove Kon ha presentato con successo diversi film al Festival del Cinema, i suoi film ottengono relativamente poco riconoscimento a livello istituzionale, perché non rientrano propriamente né nel mondo dei film d’essai né in quello dell’intrattenimento.

Talvolta la colpa di questo rifiuto è da attribuirsi alla personalità incerta dei registi stessi: il caso di Hideaki Anno, col suo Neon Genesis Evangelion, risulta eclatante. Profanata dal suo stesso autore, si tratta di un’opera che aveva portato l’autorialità e lo sperimentalismo del cinema europeo in una serie destinata a un target (troppo) giovane, che – riportata sullo schermo in anni recenti attraverso un remake – è stata trasformata in un’accozzaglia pseudo-onirica condita con abbondante fan service.

Ma Kon è differente.

Radicale, rigoroso e fedele al suo cinema.

Nessuna crisi d’identità ha piegato la sua ricerca alla volontà di schierarsi su un fronte, per garantirsi maggiore riconoscibilità sul mercato o ottenere un rassicurante riscontro di pubblico per placare le genuine inquietudini che, invece, hanno nutrito così bene ogni sua produzione. È proprio questa onestà intellettuale, traboccante nel suo universo filmico in un effluvio di citazioni e riferimenti continuamente reinventati in modo creativo, che rende i suoi estimatori così paghi e orgogliosi della sua opera. I film di Kon – con dei disegni non hanno nulla a che vedere con il gusto digitale e patinato che va di moda oggi – fanno dell’animazione una sorta di pensiero in movimento che riflette sul passato e sul futuro del cinema, perché ogni scena rivela una quantità inesausta di echi e rimandi che non disperdono mai il senso del dramma, ma la inscrivono nel suo senso profondo.

Come la pittura o la scultura nella storia hanno rielaborato linguaggi “altri”, come il teatro, la danza, la narrativa epica e poetica, l’animazione ha accolto un patrimonio di forme e figure da reinventare, e non da copiare, per farle dialogare nella propria economia d’insieme. Perché mai dovrebbe essere etichettata – a priori – come una cosa per bambini? Capace di citare solo sé stessa abbassando il suo livello intellettuale? I continui plagi cinematografici, compiuti da Cristopher Nolan e Darren Aronofsky in primis, letteralmente copiando, oltre, la trama e intere scene e sequenze dei suoi film, dimostrano come chi ha occhio sa andare al di là di questi condizionamenti, per scoprire un mondo di immagini da cui attingere per rinnovare il proprio sguardo e farci sognare a occhi aperti.  


Fra occidente e oriente, oltre le frontiere (e la paternità)

Le frontiere non sono solo quelle di genere, ma anche quelle geografiche. La ricerca filmica di Kon è stata molte volte accostata a quella di Hitchcock, in particolare rispetto al caso di Perfect Blue. L’idea di costruire un thriller teso e inquietante – senza mai scivolare nell’horror, mantenendo sapientemente il controllo del dramma – deriva sicuramente dall’attenta visione dei film del maestro del cinema inglese e statunitense. Tuttavia Kon, con la sua immersione nella psiche della protagonista, forza la mano, eccede il racconto per immagini in un’esplorazione dell’inconscio filmico che vuole “rompere” lo schermo, rinviandoci ad alcuni momenti-limite che richiamano due illustri precedenti: Marnie (1964) e Io ti salverò (1945). Se nel primo film il tema dell’identità vacillante della protagonista è sospeso sul filo di un’immagine che si altera al richiamo primordiale di un colore – il rosso – che ri-attualizza la violenza di un trauma rimosso, nel caso del secondo film la questione si fa più complessa. La celebre scena onirica, realizzata con l’aiuto di Salvador Dalí, è una mise en abyme delirante che, come ci ricorda con rammarico Ingrid Bergman, è stata quasi del tutto tagliata poiché ritenuta troppo straniante dai produttori per gli standard del mercato del tempo. Ecco, è proprio qui, oltre la censura, che si innesta la visione di Kon, ripresa poi anche nella serie Paranoia Agent (2004), forse il vero capolavoro del regista, dove il sogno rinvia esplicitamente al suo valore sociale, pubblico, politico accogliendo l’autentica eredità della lezione surrealista di un cinema e un’arte senza compromessi.