La mia vita con John F. Donovan: il cortocircuito autobiografico di Dolan
L’enfant prodige del cinema canadese Xavier Dolan è sbarcato ad Hollywood.
La mia vita con John Donovan è a tutti gli effetti un film a stelle e strisce; sebbene il paese di produzione sia quello natale di Dolan, non c’è dubbio che con questa pellicola abbia compiuto un cambio di registro verso un’americanizzazione che snatura e depotenzia in parte il suo modo di fare cinema.
Il protagonista della storia è Rupert Turner, un bambino ossessionato dalla star del cinema e della televisione John Donovan. Rupert vive da solo con la madre in Gran Bretagna, dove si sono trasferiti per cambiare vita. Il bambino comincia una incredibile – quanto inverosimile – corrispondenza con l’ammirato attore, che Rupert mantiene segreta fino a quando verrà scoperta dai media che scateneranno uno scandalo, che contribuirà a porterà Donovan al collasso e alla morte.
Un decennio dopo il bambino è divenuto un giovane attore e racconta la storia ad una giornalista in un caffè di Praga. Due piani narrativi che scorrono paralleli per tutto il film: quello dell’America all’inizio dei Duemila, e quello europeo (appena suggerito) degli anni Dieci, raccordati dall’uso del flashback.
La storia narrata parla della tanto agognata fama, della celebrità e della sua nocività, che porta le star hollywoodiane al tracollo. Niente di nuovo insomma. Ma, come sempre, Dolan farcisce la pellicola con una buona dose di autobiografismo: ecco allora l’intenso rapporto con la madre (odi et amo), l’amore per l’infanzia e l’adolescenza, e soprattutto l’omosessualità, repressa e tormentata.
Tematiche già affrontate in passato, ma sempre con un certo lirismo mai banale e retorico, sempre con una poeticità che lo contraddistingue. Celebri le scene del pluripremiato Mommy, tutto incentrato sul legame madre e figlio, così come le scene drammatiche e taglienti di Tom à la ferme.
Qui manca tutto questo, la poesia, l’entusiasmo, e l’impressione è che si sia accentuato oltremisura il patetismo nel tentativo di strappare qualche lacrima al pubblico. Esagerazione che porta addirittura ad una scena quantomai patetica, dove il piccolo Rupert corre a rallentatore verso la madre dopo essere fuggito a Londra per un provino, il tutto sotto ad un cielo plumbeo e piovoso stereotipato.
Non voglio cadere nell’errata equazione Hollywood uguale banalità, ma è certo che alcune scelte siano da addossare alla ricerca di una formula più Pop, come la colonna sonora che ricade stavolta su artisti inflazionati e telefonati come Adele, Avril Lavigne e i Green Day (Jesus Of Suburbia è probabilmente il brano più calzante della colonna sonora).
Con un cast d’eccezione così, che può vantare fra gli altri Kit Harington e Natalie Portman, si poteva fare decisamente meglio. Non si fatica a capire perché il film sia stato stroncato al Toronto International Film Festival…
Riuscirà il pur talentuoso Dolan ad uscire dal cortocircuito autobiografico e ripetitivo? Ce lo auguriamo, nell’attesa dell’ottava opera Matthias & Maxime.