Nino Bernocco: Il Labirinto dell'immagine
Ho conosciuto Nino circa un anno fa: giravo da solo nei vicoli di Genova, quando mi sono imbattuto nella sua galleria, che ha catturato la mia attenzione. Lui era seduto su una poltrona, col bastone in una mano (suo fedele compagno, non meno della sua cagnolina Nera), vestito piuttosto elegantemente, il volto allegro, vivace, con un paio di grandi occhiali rossi. Mentre osservavo con attenzione i quadri lì esposti, lui mi chiese “ti interessi d’arte?”, ed io, con un piglio di fierezza, risposi “sì, studio storia dell’arte all’università!”. Di lì in poi mostrò molto interesse e mi fece delle domande sui miei studi e sul mio futuro, finendo per regalarmi un catalogo di suoi dipinti.
Questo è stato il nostro primo incontro. A distanza di quasi un anno l’ho rivisto a Palazzo Ducale, in occasione della mostra personale “Il labirinto dell’immagine” per i suoi cinquanta anni di attività.
Qui mi sono finalmente confrontato con la sua pittura. La prima cosa che mi ha stupito è stata la diversità di stili, tecniche, colori e cromie che c’è fra i suoi quadri. Ripercorrendo i suoi cinquanta anni di attività, è evidente la sua continua ricerca, la volontà e forse la necessità di sperimentare, cosa che contraddistingue da sempre i più grandi artisti.
C’è comunque un filo conduttore che lega tutte le sue opere: la natura. Principale protagonista è la sua terra, per la quale mostra un grande amore; il meraviglioso paesaggio ligure ritorna spesso nei suoi soggetti sotto forme diverse: dalle cittadine infuocate di rosso di Boccadasse e Riomaggiore, ai più cupi paesaggi urbani (come il quartiere di Coronata e quello di Quarto), fino al recente ciclo de “il paesaggio inquieto”, dedicato ai disastri provocati dall’alluvione del 2012 in Liguria, dove, con energiche pennellate (a tratti evocative di Oscar Kokoschka), trasmette tutta la forza distruttrice della natura.
Un altro paesaggio a cui sembra essere molto legato è quello bretone, del quale ha realizzato molte tele in seguito ad un viaggio nel 2006; qui la tavolozza si accende di colori forti, vivi, fra il Fauves e il Nabis, per dare vita ad una natura che sembra vista dagli occhi di Gauguin, Matisse o Sérusier.
La tavolozza cambia nuovamente toni in altri paesaggi bretoni di alcuni anni successivi, dove Bernocco torna a guardare agli impressionisti che tanto lo avevano affascinato ed ispirato da giovane. Non è un caso se Philippe Daverio, inaugurando questa mostra, lo ha definito “l’ultimo degli impressionisti”.
Questa definizione è senz’altro calzante per alcuni suoi quadri, ma Bernocco è di più di una lontana eco di alcuni grandi artisti di fine Ottocento ed inizio Novecento, in lui sono presenti molteplici influenze: da Mafai a Sutherland, dagli impressionisti fino agli espressionisti e ai Fauves, tutte rielaborate in maniera personale. Bernocco lavora inoltre con la materia pittorica, nel suo lungo periodo informale il gesto prende il sopravvento sulla forma, dando vita ad affascinanti cromie, come nel caso delle composizioni con radici.
Nella sua vasta produzione è rara la presenza della la figura umana, che compare sparutamente come fosse un fantasma; volti umani mostruosi, che rievocano a tratti quelli dipinti da Munch, dai quali, nonostante le forme appena sbozzate e quasi in discioglimento, traspaiono paure ed angosce.
In un’epoca in cui i nuovi media dominano la scena artistica – dalla performance alla street art, dalle installazioni alla land art (un periodo storico in cui una statua in cera viene battuta all’asta per 17 milioni!) – la pittura sembra aver fatto il suo corso; ma guardando ad un pittore come Bernocco ci rendiamo conto che non è così, la pittura persiste, la pittura è viva.