Dalla parte del territorio: in memoria di Antonio Cederna
Antonio Cederna (Milano, 27 ottobre 1921-Roma, 27 agosto 1996) è stato definito il “Il difensore del suolo” nel lungo silenzio del Dopoguerra.
Archeologo, giornalista, critico d’arte, intellettuale, visionario e cronista, ri-conosciuto come ”indignato speciale”, inizia collaborando per Lo spettatore italiano di Elena Croce e prosegue la sua attività di scrittura e denuncia per Il Mondo, L’Espresso, il Corriere della sera etc, distinguendosi per una prosa critica, sarcastica e ironica. Fu tra i primi – con Italo Insolera e Roberto Bazzoni, tra gli altri – a rilevare il carattere del territorio come bene collettivo e a proporre linee precise di analisi e discussione in materia di tutela: a partire dalla necessità di salvaguardare i centri storici considerandoli nella loro globalità e a investire nell’ideare aree verdi attrezzate nei nuovi progetti residenziali. Costante fu il confronto con il contesto europeo e quel sistema continuo del verde pubblico e del verde attrezzato a cui Cederna ambiva e sperava di vedere presto replicato nelle province italiane.
IL CENTENARIO DI CEDERNA
In uno dei suoi saggi intitolato Difesa della natura, difesa dell’uomo (pubblicato in tal modo nel 2021, mentre in origine nel 1982 compariva come un estratto di Parchi e riserve naturali in Italia) si pone l’intenzione di individuare l’origine del comportamento nocivo e distruttore dell’uomo nei confronti del luogo in cui vive: la nostra cultura (che, come precisa Cederna, si ispira e si ancora alla tradizione cristiano-giudaica) si è sviluppata seguendo l’imperativo subicite terram! facendo dell’uomo il soggiogatore della natura. In seguito, la civiltà industriale ha interiorizzato quel comandamento di Dio in una condotta che ha ritenuto lecito qualsiasi tipo di intervento sull’ambiente, considerando qualsiasi sua trasformazione ai fini esclusivamente e immediatamente produttivi. Insiste su un concetto così chiaro e semplice, eppure reiteratamente inascoltato: la difesa dell’ambiente non deve essere considerata come una remora per il progresso, ma intesa come un servizio per la collettività intera.
Celebre e sintomatico di una pratica è stato l’articolo uscito in data 1 settembre 1953 dal titolo I gangsters dell’Appia, contro la speculazione edilizia dell’antica regina viarium: questa era da salvare, non solo per la sua storia, ma, anche e soprattutto, “per la sua luce, i tramonti, gli alberi, il silenzio”. Si tratta di una delle prime battaglie verso un nuovo disegno urbanistico, che corre parallela alla forza costruttrice che si imponeva contestualmente sul territorio italiano: nonostante l’antica strada fosse stata dichiarata di pubblico interesse, il comune concede ugualmente le licenze per edificare. La pressione intellettuale della denuncia guidata da Cederna è tale che porta nel 1965 a un fatto dirompente: nell’iter di approvazione del piano regolatore della città di Roma viene inserita da Mancini (ministro dei Lavori Pubblici, lo stesso della legge 765/1967, che pone modifiche alla normativa in materia urbanistica vigente dagli inizi degli anni Quaranta) un decreto specifico che salva l’Appia Antica e destina a parco pubblico gli ettari attorno alla via. La voce dell’azione collettiva diviene effettiva e produttiva, un primo esempio efficace di quell’actio popularis che Giovanni Rosadi, nei primi anni del Novecento, auspicava venisse inserita come strumento di salvaguardia e tutela del patrimonio.
Nel 1975 esce La distruzione della Natura in Italia, edito da Einaudi. I temi da lui affrontati ritornano sul malgoverno del territorio (provinciale e metropolitano), sull’eliminazione dello spazio fisico necessario alla salute pubblica e sulla cancellazione irreversibile del paesaggio, sulla distruzione e rovina delle città e sulla privatizzazione sistemica e libera del suolo nazionale in nome della rendita parassitaria ed individualistica. “Lo sfacelo del bel paese” si identifica, per Cederna, in due con-cause: il vuoto legislativo, determinato dalla mancanza di leggi moderne e dall’esistenza di leggi anacronistiche (seppur quella Bottai, la L. 1497/1939, utilizza l’aggettivo naturale, si rifà a criteri estetici e formalistici) e il vuoto della cultura, che assumendo che la natura è un quadro, su di lei fa prevalere le esigenze pratiche di una società imprenditorialista e immobiliarista.
È quindi di importanza decisiva il poco o il molto che può essere ottenuto con l’azione quotidiana di associazioni, partiti, comitati, gruppi di cittadini per strappare alla speculazione il metro quadrato di verde, l’area per la scuola o il campo sportivo: per salvare il prato, il pascolo o la spiaggia dal ghetto turistico e dall’accaparramento privato. Solo così potranno essere smascherate le lusinghe dei demagoghi, le mene degli amministratori ladri, le manovre dei nemici del genere umano: e potrà maturare quella coscienza del territorio come bene e patrimonio comune, da difendere con le unghie e con i denti, perché una volta perduto non si recupera più e se ne resta mutilati per sempre.
Introduzione, Cederna A., La distruzione della Natura in Italia, Einaudi, Torino, 1975, p. XV.
Cederna si riferisce continuamente a un’Italia provvisoria: lamenta e inveisce contro politici e cittadini che dal Dopoguerra in poi hanno assistito alla depredazione del territorio che, anziché venir considerato un patrimonio collettivo e una risorsa che per definizione è limitata, irreversibile e non reintegrabile, era divenuto una terra di facile conquista da parte della speculazione edilizia. Dunque trova le motivazioni non solo nella totale mancanza di morale dei politici al potere e nell’analfabetismo degli amministratori locali, ma anche nei cittadini che sono cresciuti tra il cemento armato, “corrotti” dal progresso: le città hanno visto quintuplicare il loro insediamento abitativo, in regola con l’ordinamento giuridico che secondo una sentenza della Corte Costituzionale del 1968 (la n. 55) poneva il diritto a edificare connaturato al diritto di proprietà, giustificando lo stillicidio del suolo.
Un caso esemplare: il “mostro” del Fuenti
Cederna con il suo sguardo attento verso il territorio (nella sua accezione più ampia, comprendente natura e cultura) ha intuito presto il rischio che questo correva negli anni del boom economico. Con il suo celebre articolo del 1972 ebbe la forza di sollevare un tale clamore da costituire - nel suo genere - una sorta di archetipo della denuncia ambientalista. Racconta della costruzione dell’Amalfitana hotel, un edificio decisamente fuori scala, presto ribattezzato il “Mostro del Fuenti” (34.000 metri cubi di cemento, 24 metri di altezza, 2000 metri quadri di superficie e 7 piani) realizzato in una zona costiera limitrofa a Vietri sul Mare, dunque in un’area protetta, ancora prima che l’UNESCO indicasse nel 1997 la Costiera Amalfitana come patrimonio dell’umanità. Questo presunto caso di abuso edilizio allora venne messo al centro del dibattito giornalistico, grazie anche all’azione congiunta e organizzata di altri intellettuali quali Antonio Iannello, Alfonso Tafuri, Pietro Amos, Antonio Bottiglieri, Michele Santoro, Alfonso Gambardella, fondatori del cosiddetto “fronte anti mostro”. Avvenne dunque una rara forma di sinergia fra le forze della stampa (con le sue testate nazionali e scandalistiche) e della cultura, con l’indignazione di personalità sinceramente interessate alla tutela dei luoghi formalmente protetti ma fattualmente a rischio, cosicché la vicenda raccolse un’eco mediatica imprevista grazie al fatto che esperienze di questo tipo accadevano in pieno silenzio lungo tutta la penisola. Molti poterono rispecchiarsi in questo tipo di assalto alla natura, guardando attorno con i propri occhi - al nord come al sud - il paesaggio trasformarsi e deformarsi, senza nessuna forma di pianificazione concretamente in grado di difenderlo, divorato dalla brama di arricchirsi di pochi a danno dell’interesse collettivo. Le parole di Cederna anticipano la riflessione sul patrimonio culturale, inteso come un qualcosa che riguarda tutti grazie alla capacità di accogliere e perpetrare valori, storie, immagini e significati.
Ma oltre la diffusa coltre di sdegno e scontento che si agitava sulla carta, la lotta proseguiva anche nei tribunali, dove il destino dell’hotel avrebbe incontrato un iter giudiziario lunghissimo e tormentato, che giungerà ad una conclusione (fortunatamente lieta) solo alla fine degli anni Novanta, quando ne verrà decretata la parziale demolizione. Oggi l’area è stata riqualificata e trasformata in un giardino che ospita diverse attività, a dispetto della distopia postmoderna di Fuksas di costruire lì un “monumento alla bruttezza” per ricordare il mostro, o del “compromesso” di Portoghesi che prevedeva la conservazione dell’edificio, modificandolo e abbassandolo di due piano. Il cavillo principale su cui si appellava la difesa riguardava il controverso tema dell’abusivismo. Essendo la costruzione autorizzata dalla soprintendenza e dal comune, risultava difficile inquadrare materialmente la costruzione come tale. Certo, l’edificio non rispecchiava gli standard approvati, ma il punto è che in quella zona un edificio del genere non doveva proprio esistere.
L’area interessata non era uno spazio incontaminato. Era stata sfruttata fin dall’antichità, e nell’Ottocento era stata trasformata in una cava. Quindi si tratta di uno sperone roccioso che aveva subito numerosi “assalti”, che tuttavia facevano parte integrate della storia della costiera amalfitana, in quanto raccontavano della difficoltà di abitare un luogo così impervio e delle concrete tecniche di adattamento per renderlo ospitale. Lo stile stereotipato della nuova costruzione negava questa storia architettonica, e tutti gli sforzi di armonizzazione con la natura che erano stati compiuti in passato. Un edificio tozzo e squadrato - di ben sette piani - incastonato nella roccia? Quando la struttura dei terrazzamenti su cui sono sorti tutti i paesi da Positano a Vietri racconta di un’altra forma di “accompagnamento” delle abitazioni lungo l’asse diagonale che risale verso i picchi dei Monti Lattari. La Campania, in quegli anni - fra le altre regioni - ha subito terribili assalti alla costa, che hanno portato a diffusi fenomeni di cementificazione e speculazione edilizia che hanno alterato brutalmente le silhouette di cittadine e aree protette, che si sono infine uniformate ad un canone (anti)estetico, quello del profitto indiscriminato.
Mostro, Ecomostro. Differenze sottili ma sostanziali nella narrazione
Si tratta di un episodio appunto “esemplare”, come affermava Cederna, per la gravità oggettiva ma anche per il valore simbolico che questo caso era stato in grado di rivendicare nel panorama nazionale, valendosi come emblema di tutte le future narrazioni di questo tipo. Questo passaggio cruciale avverrà quando nel linguaggio giornalistico dall’appellativo di “mostro” si passerà a quello di “ecomostro” per definire questi orrori cementizi, grazie ad una traduzione del termine effettuata da Legambiente, che definirà successivamente con tale accezione tutta una serie di casi analoghi, alcuni destinati a diventare altrettanto celebri. Ma qualcosa negli anni prenderà una piega imprevista.
L’immagine di “mostro” affibbiata da Cederna alla costruzione dell’Amalfitana hotel, che guidava verso una lettura figurativa e drammatizzata del fenomeno, si è persa quando con il prefisso “eco” il termine è stato sdoganato, perdendo un valore identitario a favore di un altro. Da allora segue un’applicazione a tappeto di questo, senza il forte senso di coscienza civica implicato nel pensiero di Cederna. Certo, resiste lo sdegno, l’interesse genuino, riscontrabile su più fronti. La letteratura sul tema è aggiornata, e ha fatto tesoro di tutte le riflessioni del giornalista e ambientalista. Inoltre, nella denuncia - oggi anche sul web - e nella semantica del neologismo si rivela una certa apertura. L’ecomostro, infatti, non è solo il singolo edificio, ma un insieme di costruzioni che alterano la morfologia di un territorio, che ne inquinano la natura e la prospettiva. Ma l’ecomostro è anche un termine pronto-e-finito: basta usarlo in una conversazione per additare un edificio, connotandolo negativamente, e il carattere della denuncia si carica di tutta una serie di determinazioni che lo collocano in un preciso ambito discorsivo. Si parla così di abuso ma anche di una ramificazione e collusione di interessi illegittimi che trovano, attraverso una sottile e losca orchestrazione, il modo di prevalere e concretizzarsi. L’ecomostro come concetto, ricordiamo, è un qualcosa che esiste solo in Italia, prodotto di un preciso sistema.
Efficace? Sì, ma per certi versi troppo facile. Nonostante la fonte favolistica o mitologica che evoca nell’immaginario comune il parlare di “mostri”, entità maligne e malevole, questo termine nel discorso di Cederna non guida verso nessuna narrazione unidirezionale e semplicistica. Diventa uno slogan, rispondendo a una comprensibile logica del giornalismo, ma resta un nome che “dialoga” con altri, che introduce agilmente alla sua argomentazione. Non si tratta di definire gli opposti e netti schieramenti dei cattivi cittadini e dei buoni cittadini, distruttori e protettori del territorio, ma di articolare le complesse dinamiche che intersecano i soggetti attori e le modalità, le prassi condivise nello svolgersi delle singole vicende. Ogni paesaggio, ogni bene culturale a “rischio” ha i suoi nemici e i suoi difensori, ma anche i suoi paradossi e le sue complessità, figlie di un insieme di fattori che lo dotano di una propria specifica fisionomia. Saturare di significato un termine, sdoganarlo nel linguaggio comune significa anche depotenziare un discorso e quindi tutti gli aspetti che solo con il pensiero possono emergere nella loro giusta dimensione.
Ma lo spazio per la discussione e la riflessione risulta sempre più carente nel mondo della comunicazione contemporanea, specialmente nelle dinamiche social attuali, dove è necessario avere sempre un’opinione tempestiva su tutto, senza lasciare agli eventi il tempo di sedimentarsi nella coscienza. Quali strategie pensare per il rilancio di un’area degradata, mutilata e compromessa? La retorica serve a poco quando bisogna essere in grado non solo di studiare una realtà culturale e intervenire per difenderla, ma anche di ascoltarla e interpretarla quando oramai il danno è fatto. Invece, associati ai fenomeni di sdegno per gli ecomostri, sul web appaiono sempre più video di demolizioni spettacolarizzate di questi che fanno la delizia di voyeur affamati di disastri. Se distruggere è talvolta necessario, costruire un’audience su esplosioni da film d’azione - con un intento apparentemente liberatorio - non fa altro che coltivare una morbosità che si oppone alla riflessività necessaria ad elaborare strategie costruttive in grado di dischiudere nuovi scenari sostenibili.
Queste storie fatte di abusi e denunce, demolizioni e risarcimenti, anche quando si sviluppano oltre l’arco cronologico della vita di Cederna, raccontano ugualmente della sua infaticabile avventura intellettuale, attraverso una traccia del suo passaggio che si è depositata nella memoria sociale del territorio. Ciò che ci resta del suo operato e della sua riflessione teorica costituisce un presupposto irrinunciabile per tutte le successive battaglie che si combattono per la salvaguardia del suolo italiano, grazie alla foga e alla passione che ha saputo imprimere nel suo attaccamento verso la nostra cultura.