DIS/INTEGRATION: l'arte diventa inclusiva e invade gli spazi della Sapienza
Il 3 dicembre 2021, in occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità, è stata inaugurata la mostra DIS/INTEGRATION. L’esposizione, a cura di Alessandro Zuccari, prorettore al Patrimonio artistico storico culturale, con il contributo del regista e artista César Meneghetti, è ospitata all’interno della Sala della Minerva, cuore del Rettorato dell’Università La Sapienza.
DIS/INTEGRATION è una mostra che ospita disegni, dipinti, installazioni e collage di parole realizzate dalle persone con disabilità dei Laboratori d’Arte della Comunità di Sant’Egidio. La scelta del luogo in cui esporre le opere, quindi, non è casuale: non un museo o una galleria d’arte ma il Rettorato dell’Università, un edificio pieno di barriere architettoniche che hanno impedito negli anni un accesso facilitato alle persone con disabilità. Un luogo di esclusione che diventa simbolo d’inclusione, di superamento di qualsiasi barriera, materiale e immateriale. Il percorso culturale, non a caso, comincia dallo scalone fuori dal Rettorato, luogo di ritrovo degli studenti dell’Ateneo negli anni prima di essere chiuso da una struttura di vetro. L’ennesima barriera in un mondo che ne è già pieno. Questo, tuttavia, non ha fermato Claudio Sagliocco, curatore per le opere esterne: come ha ricordato nel suo intervento nel giorno dell’inaugurazione attraverso le parole di Keith Haring, “un muro è fatto per essere disegnato”, trasformando quest’ostacolo in un’opportunità. Le barriere di vetro sono diventate, infatti, il supporto per tre opere d’arte realizzate da street artist la cui scelta non è stata casuale.
Elia Novecento e Leonardo Crudi non sono nuovi a collaborazioni con Sant’Egidio; l’anno scorso, infatti, hanno donato al Museo Laboratorio di Tor Bella Monaca due opere murali che simboleggiano l’impegno e l’attenzione della Comunità verso gli ultimi e i fragili. In continuità con queste, per la mostra DIS/INTEGRATION hanno realizzato sulle barriere di vetro fuori dal Rettorato due opere di grande impatto.
“Contro ogni barriera”, di Leonardo Crudi, manifesta l’opposizione a ogni forma di coercizione dei popoli: l’opera si presenta con un muro stilizzato dal quale fuoriescono due mani in segno di accoglienza e al centro il Kinoglaz di Dziga Vertov, il cineocchio che rende visibile l’invisibile a documentare la vita e le difficoltà degli ultimi, rappresentati da due sottoproletari messi agli estremi dell’opera. Quello che Crudi vuole mostrare è molto attuale poiché invita lo spettatore a pensare alle numerose barriere erette negli ultimi tempi lungo i confini nazionali. Non solo barriere materiali ma anche mentali, che ci spingono a escludere e a tenere lontano dai nostri occhi tutte quelle persone che in un certo senso non rispettano i canoni che la società impone.
Elia Novecento, invece, ha realizzato “L’illeggibile diventa planisfero unico” ispirandosi ai tappeti di guerra afghani, eseguiti dal popolo afgano dagli anni ’70 in poi per raccontare i drammi che colpirono il Paese come l’occupazione sovietica e la resistenza dei Mujaheddin e la più recente occupazione statunitense. Riprendendo le geometrie e la divisione degli spazi tipici di questi tappeti, l’artista le ha reinterpretate in un planisfero stilizzato con il globo rappresentato in un unico colore trasparente, per dare allo spettatore l’immagine di un mondo senza confini a sottolineare, come diceva il giornalista Vittorio Arrigoni, che “apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana”.
Quest’opera ha un legame particolare con la Comunità di Sant’Egidio. Essa, infatti, è da sempre attiva nel campo umanitario e, in particolare, si è fatta promotrice negli anni dei corridoi umanitari, dei progetti che permettono a chi sta fuggendo dal proprio paese per differenti motivazioni, di farlo in modo sicuro e legale. Grazie a questi programmi, Sant’Egidio ha consentito l’arrivo in Europa di 4300 profughi provenienti da Libano, Etiopia, Grecia, Libia, e questa estate proprio dall’Afghanistan. I corridoi, come le parti trasparenti dell’opera di Elia Novecento, vanno a decostruire il concetto stesso di nazione, ossia territori delimitati da dei confini invalicabili se non senza il permesso di chi li governa.
L’ultimo artista chiamato per chiudere l’opera murale è l’italo-belga Sibomana, che si è sempre sentito cittadino del mondo con una raffinata sensibilità nei confronti della multietnicità che trasporta nelle sue opere. La sua opera “Walls of shame”, collegata all’installazione realizzata per il Centro di accoglienza Baobab a Roma, mostra uno stormo di uccelli che esce da dalle mani che, unendosi in un’unica grande rondine, oltrepassa il muro ricordandoci come il concetto di confine esista solo per gli esseri umani. In linea con la sua missione nella vita, quest’opera serve a educare, senza alcuna presunzione, le persone all’integrazione tra popoli.
Il percorso continua all’interno del Rettorato con la prima opera, “Integration”, una video installazione di César Meneghetti, artista e cineasta brasiliano di fama internazionale, sensibile alle questioni globali e già da anni collaboratore con la Comunità di Sant’Egidio. L’installazione è un modo per dare voce a tutte quelle persone che frequentano i Laboratori d’Arte e che, attraverso le loro parole, raccontano il loro sguardo sul mondo e su questioni di attualità.
Vicino alla video installazione, troviamo un’opera collettiva di grande impatto: “Diritti (non) dati”. L’installazione è composta dagli articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo messi a confronto, in modo da far riflettere lo spettatore, con alcune statistiche sui diritti negati. Gli artisti hanno voluto giocare con il titolo: il “non” messo all’interno della parentesi, sta a indicare non solo i diritti non dati a determinate persone, ma anche il non considerare queste come dei semplici dati numerici.
Continuando troviamo l’opera collettiva “16 ottobre 1943” che a primo impatto può non suscitare emozioni a un osservatore che non conosce la storia dietro a quella data. In quella triste giornata, funzionari della Gestapo con la complicità del regime fascista, rastrellarono il ghetto di Roma e deportarono 1.259 persone tra donne, uomini e bambini. L’opera è composta da più di mille candele bianche chiuse all’interno di una rete, a simboleggiare i campi di concentramento, e di quelle solo 16 sono dipinte di rosso. Sedici, come le uniche persone sopravvissute alla tragedia e tra di loro Settimia Spizzichino, unica donna, la cui candela simbolo è dipinta di blu.
Un’altra opera di grande impatto sociale è “Diversità, Omologazione e l’isola di Pasqua”, un ironico trittico di Michele Colasanti, dipinto su tele smarginate e quasi bicrome. Colasanti, laureato magistrale in cinema e televisione presso il DAMS di Roma 3, da alcuni anni coltiva la passione per il disegno privilegiando matita, china e acquerelli, affrontando con ironia tematiche complesse per esprimere il suo pensiero. In quest’opera l’artista pone l’accento su un argomento di attualità, il cambiamento climatico, rappresentando al centro i famosi Moai – le statue dell’Isola di Pasqua – e una stilizzata Greta Thunberg ponendo una domanda allo spettatore e all’intera comunità mondiale: finiremo come gli abitanti dell’Isola di Pasqua, che sprecando risorse sono finiti a mangiarsi tra di loro?
Altre due opere colpiscono a prima vista. La prima è “Prendersi cura” di Barbara Piccinini, donna con la sindrome di Down che frequenta i Laboratori d’Arte dal 2005 e che negli anni ha ricercato la tecnica che le fosse più congeniale, trovandola inizialmente nel puntinismo, passando, in seguito, alla creazione di opere di grandi dimensioni; e Roberto Mizzon, che inizia a lavorare con la ceramica in uno degli istituti dove viene ricoverato da bambino, tra gli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80 e continuando, una volta tornato in famiglia, all’interno dei Laboratori d’Arte dove si accosta prima alla pittura, prediligendo la creazione di opere materiche, e poi alle installazioni. L’opera a tecnica mista su tela, s’ispira alla Madonna della Misericordia di Piero della Francesca ed è dedicata a tutte le donne – l’86% in Italia – che si prendono cura delle persone disabili e degli anziani.
L’altra opera è “Corridoi Umanitari” di Abdullah Rahmani. Il giovane artista afghano, che ha subito l’amputazione di una gamba durante un primo tentativo di raggiungere l’Europa attraverso la rotta balcanica, giunto in Italia nel maggio del 2021 proprio grazie ai Corridoi umanitari organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio. In Afghanistan ha iniziato ad applicarsi al disegno e alla pittura, passione che ha ripreso a coltivare in Italia. L’opera a olio su tela rappresenta una famiglia di migranti che, con le poche cose che sono riusciti a portarsi dietro e un piccolo salvagente, si sta dirigendo verso un posto sconosciuto per cominciare una nuova vita lasciandosi alle spalle la propria terra e il mare, diventato ormai negli ultimi anni un simbolo triste.
Come si può notare, la mostra è incentrata sui temi delle fragilità e delle diseguaglianze, sull’accoglienza e sull’integrazione, che si legano a questioni di attualità come le migrazioni, la crisi ecologica, i conflitti e tutte le conseguenze che si portano dietro. La mostra ha il merito di sensibilizzare lo spettatore sul superamento del pregiudizio nei confronti delle persone con disabilità, sull’inclusione e il prendersi cura di tutti e non solo di noi stessi come ci ricorda una frase di Jonathan Sacks posta a grandi caratteri nell’atrio del Rettorato:
Un paese è forte quando si prende cura dei deboli
è ricco quando si occupa dei poveri
diventa invulnerabile quando presta attenzione ai vulnerabili
La mostra ha rappresentato anche un simbolo di rinascita, dopo la pandemia, per gli artisti che hanno partecipato. Con la ripresa dei lavori di gruppo dei laboratori della Comunità, queste persone hanno riattivato il loro percorso di liberazione dallo stigma della marginalità e dal silenzio attraverso la creatività e la possibilità di esprimere il loro pensiero e la loro visione del mondo e farla conoscere a tutti.
DIS/INTEGRATION non è, quindi, una mostra tradizionale. È un percorso introspettivo dove il visitatore, osservando le opere, entra in contatto con le questioni globali, con il mondo delle periferie e gli esclusi per imparare e comprendere realmente il significato del concetto di resilienza caratteristico di queste persone.
Invito quindi le lettrici e i lettori ad andare a visitare le opere che ho descritto e le altre presenti alla mostra, ad addentrarsi in questo percorso culturale e a conoscere Gli Amici – nome con cui si sono chiamate le persone con disabilità dei Laboratori d’arte della Comunità di Sant’Egidio. La mostra sarà visitabile gratuitamente fino al 28 gennaio 2022 al Rettorato dell’Università La Sapienza.