Archer: una delle serie animate più geniali e irriverenti della storia

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L’agente segreto Sterling Archer è orami un mito, sorta di James Bond post-freudiano, paladino dell’universo mediale postmoderno. Sfolgorante, spavaldo, spietato come tutto il polifonico cast della serie, che ci regala in ogni episodio con nonchalance notevole una raffica di battute sparate ad altissima velocità e frequenza. Queste sono studiate appositamente per stendere lo spettatore più ingenuo e strafiggere quello più avveduto; nauseandoli e esaltandoli alternativamente, spingendoli al di là della soglia del cattivo e del buon gusto.

       Dopo dieci stagioni dirompenti, segnate da un umorismo caustico e una trama sopraffina ricchissima di riferimenti colti al cinema americano e alla cultura pop, la serie di Adam Reed ancora sopravvive, imperterrita e beffarda come i suoi protagonisti, e si prepara a rinascere in un’undicesima stagione. Ci domandiamo: quante serie tv conosciamo così longeve? Nel panorama immenso di prodizioni Netflix – nel cui catalogo figura anche Archer – vediamo tantissimi lavori che vantano episodi lunghissimi, ma che si esauriscono nel giro di poche stagioni. Archer è tutto il contrario. Con puntate che superano a stento i venti minuti, si capisce subito che lo scopo dei creatori non è mai stato unicamente quello di intrattenere: si è sempre trattato piuttosto proporre un lavoro elaboratissimo, capace di raggiungere vertici di raffinatezza e minuzia da capogiro. Vertigini e euforie in un universo fatto di sesso violenza e intrighi internazionali. Tutto questo, senza né spocchia né artificio, è perfettamente godibile in puntate che vanno giù che è una bellezza, verrebbe da dire.  L’immediatezza è parte integrante dello charme tonico e virile che contraddistingue tutti i momenti della serie, gli sferzanti scambi di battute che rimandano alla perspicacia dialogistica del cinema di Hitchcock e di certi scrittori americani del Novecento. Puntate veloci e micidiali come colpi di proiettile, una narrativa che scorre liscissima come i fiumi di alcol e di sangue che si versano nel corso dei 110 episodi che compongono la serie. Questa è la formula vincente di un prodotto che in Italia non ha mai sbancato, ma che negli Stati Uniti è un cult assoluto.

Ma di cosa parla Archer? Storia di una spia che recupera ed esaspera tutti i cliché dei maschi alpha della nostra tradizione: insensibile, promiscuo, egoista, narcisista… lo vediamo in tutti i ruoli: nei panni di mercenario come di donnaiolo e giocatore incallito, sabotatore come trafficante di cocaina. Tuttavia, il nostro protagonista è molto più sfaccettato di quanto appare. Non si tratta della solita storia dei personaggi con “spessore” che rivelano un lato sotto sotto buono, umano. Archer è la perfetta sintesi di tutti questi modelli maschili che vediamo proliferare sul grande e sul piccolo schermo, sintesi che non dimentica l’ombra perversa che smuove la superficie di sicurezza e boria. Infatti, l’agente numero uno dell’Isis (lo sfortunato nome dell’agenzia)… lavora ancora per la madre, Malory Archer, altro pilastro portante della serie. Donna altera e dispotica, sostenitrice di ideali reazionari al limite del parossistico e di uno stile di vita mondano oltre ogni dire, è spesso la vera antagonista e l’oggetto dell’unico amore, autentico e proibito (Archer è una serie terribilmente edipica), di questo bambinone che non è mai veramente cresciuto, nonostante le camicie su misura e l’aplomb da uomo di mondo. Coppia totalmente disfunzionale, madre e figlio si riveleranno presto l’uno lo specchio deformante dell’altro.

       L’ottava la nona e la decima stagione provano una soluzione formale innovativa: dopo un incidente quasi mortale Archer è in coma, e in queste tre stagioni esploriamo il suo inconscio che a sua volta si modella sull’estetica di una Los Angeles degli anni Cinquanta, su quella di un’isola dell’Oceania durante gli ultimi anni del colonialismo, e su quella della fantascienza del cinema hollywoodiano. È precisamente qui, alla fine dell’ultima stagione, che Arche esce finalmente dal coma, e ritrova Malory a vegliarlo. È sempre stata lì, ad aspettare il suo risveglio per i tre anni coincidenti con le tre stagioni oniriche. Lei, incredibilmente addolcita, gli dice una cosa sorprendente: queste continue disavventure vissute nel corso di tutte le dieci rocambolesche stagioni non sono sarebbero state altro che le mille facce di un’unica storia d’amore. La loro, precisamente. Questa continua variazione di uno stesso tema ci riporta alla domanda retorica che ci siamo posti all’inizio: quante serie conosciamo così coraggiose che sono state capaci di rinnovarsi senza mai tradire la propria identità, ma piuttosto trasfigurandola e complicandola nel dialogo con altri universi metanarrativi? Tutto questo, insieme alla messa in scena di una dinamica di rapporti – quella fra madre e figlio – che svela un mondo di complessità, fatto di ataviche incomprensioni e incomunicabilità ma anche di squarci di assoluta sincerità. Archer lo ha fatto per undici anni, e sempre con grande stile.

 

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