"Artemisia Gentileschi e il suo tempo": La pittrice che ha trasformato l'odio in amore
Luogo: Palazzo Braschi
Durata della visita: 2h
Periodo: dal 30 Novembre 2016 al 7 Maggio 2017 (Apertura eccezionale fino alle 23 tutti i venerdì e sabato)
Capelli frondosi, guance carnose e rubiconde, bocca e sopracciglia sottili come lame. Due occhi capaci di trafiggere con il loro sguardo penetrante e deciso. Linee rimaste impresse nel tempo e che compongono il primo dipinto della mostra: Autoritratto di Artemisia Gentileschi con matita nera. Dietro quella espressione fiera e austera, si cela però un segreto.
1611. Giornata buia e piovosa, l’acqua scende copiosamente dal cielo. La porta di casa Gentileschi è semichiusa. Agostino Tasso (pittore nonché insegnante di Artemisia), dopo aver controllato che nessuno l’abbia visto s’introduce nell’elegante dimora. Artemisia è nel soggiorno. Sola. Sta lavorando a un dipinto quando vede entrare il suo maestro. Agostino non è tuttavia lì né per insegnarle i segreti della prospettiva né per ripararsi dal temporale, ma si trova davanti a lei per soddisfare la sua concupiscenza.
Le spinte, i palpeggiamenti, il letto, le ginocchia contro le sue gambe, le urla, le grida, e il sangue. Attimi di una violenza difficile da ricostruire. Frammenti di un momento impossibile da dimenticare.
Solo un anno dopo dall’evento – evidentemente per problemi diversi, insorti successivamente alla vicenda – Orazio Gentileschi decide di denunciare Agostino Tasso per quanto accaduto alla figlia.
Un anno vissuto in agonia psicologica da Artemisia, che non poteva neanche ricorrere alle vie giudiziali autonomamente, dato che all’epoca ciò non era consentito alle donne: dovevano essere i coniugi (o in tal caso il padre) a vendicare l’onta subita. La violenza non era considerata un’offesa alla donna bensì all’uomo che la possedeva, di cui ne era proprietario.
Dopo un lungo e sofferto processo (Artemisia si sottoporrà anche alla tortura delle sibille), Agostino viene riconosciuto colpevole; ma la condanna sarà irrisoria: ha la possibilità di scegliere se passare cinque anni in carcere o lasciare Roma – e naturalmente opta per la seconda.
L’ingiustizia vissuta dalla pittrice e il rancore accumulato per la vergogna subita mettono le proprie radici nel suo animo. E con il passare dei giorni crescono, così come aumenta la sua passione per la pittura. Comincia dunque a imprimere ciò che aveva sofferto sulla tela. Trasforma l’odio in amore. Sentimenti che presi singolarmente hanno già di per sé una carica enorme, ma è solo dalla loro unione che nasce un potere invincibile, eterno, che le permetterà di entrare nella Storia dell'Arte.
Il talento di Artemisia non è condizionato solo dalle sue emozioni, sono diverse le influenze che hanno inciso durante la sua formazione. Tra queste vi è principalmente quella del padre, suo primo insegnante. Da lui, che era stato a stretto contatto con Caravaggio, impara l’uso del chiaroscuro, quella luce drammatica capace di affascinare con le sue impercettibili sfumature, e apprende inoltre a realizzare con tratto leggero e preciso i capelli, che appaiono di un realismo lenticolare.
Nel corso della mostra i quadri, in totale 90 di cui 30 della Gentileschi, sono disposti seguendo un ordine cronologico e raggruppati nelle diverse sale per tema, permettendo così al visitatore di cogliere le diverse sfumature tra i diversi artisti.
Il raffronto principale è nella terza sala. Si tratta di due dipinti che da soli meritano il prezzo del biglietto. Per le loro dimensioni occupano quasi un’intera parete ed è un’occasione unica vederli uno accanto all’altro. La scena raffigurata è la stessa: Giuditta che decapita Oloferne.
Le due tele hanno una carica drammatica travolgente: è con queste opere che la pittrice sublima la sua arte. Il livore nel suo copro viene filtrato attraverso le setole del pennello e si fa colore vivo che tinge d’emozioni la candida stoffa.
E tra i due quadri, uno datato 1617 – periodo in cui soggiornava a Firenze a seguito dello scandalo, tant’è che non si firmava più come Artemisia Gentileschi ma Lomi (cognome dello zio) – e l’altro 1620 – in cui invece Artemisia torna a Roma trionfante, dopo essersi affermata nel campo dell’arte (prima donna ad essere ammessa alla prestigiosa Accademia del disegno) – si possono rintracciare le differenze dovute al diverso momento in cui sono stati realizzati.
Nel primo esempio lo sguardo di Giuditta non nasconde un bagliore di compiacimento per la vendetta compiuta (il processo le aveva in parte reso giustizia), ma il suo volto è ancora inquieto e tormentato (giacché in quell'anno fu costretta a lasciare da Roma e a lavare l'onta con un matrimonio riparatore); nel secondo si intravede invece una smorfia di sfida, proclamo della sua vittoria e dell'affermazione in campo artistico. Anche i miglioramenti stilistici sono evidenti: la spada, prospetticamente carente nel quadro che ha sede a Napoli, è invece realizzata perfettamente in quello con dimora a Firenze. Un particolare, però, rimane uguale in entrambi i dipinti: è la mano di Oloferne che stringe la veste dell’ancella; la stessa morsa che aveva bloccato Artemisia quella mattina di cinque anni prima, che l’aveva costretta a subire contro la sua volontà quell’infamia, e che è ancora presente sulla sua pelle, leggera ma costante, come una mano fantasma che infesta la sua anima.
Proseguendo oltre si ha modo di apprezzare diverse scene cruente in cui la donna è sempre protagonista (un'innovazione per quel tempo), senza però mai mostrare una violenza sgradevole; anzi, i loro corpi, le loro vesti e i loro sguardi le rendono seducenti anche nel gesto letale. Una piacevole eutanasia artistica.
L'ultimo dipinto "Susanna e i vecchioni (1652)" chiude la sensazionale mostra dedicata ad Artemisia Gentileschi e racchiude la sua esistenza. Viste le sue precarie condizioni fisiche, l'opera viene terminata con l'aiuto del pittore Onofrio Palumbo.
La scena biblica rappresentata è quella di Susanna, giovane fanciulla adescata da due anziani magistrati che respinge le loro avances nonostante i loro ricatti. Per vendicarsi del rifiuto, coloro la denunciano per adulterio e riescono a farla condannare a morte; Susanna però, grazie all'intervento del profeta Daniele, riesce ad essere scagionata dalle accuse e ribalta infine il verdetto.
Ad Artemisia era toccato lo stesso destino. Due uomini la trascinarono negli abissi della vergogna. Agostino Tasso, strappandole la sua purezza e costringendola a lasciare la capitale; il padre, tradendo la sua fiducia per essere stato complice dell'inverecondo pittore e contribuendo così a gettarla nell'infamia. Ma attraverso il suo talento sconfinato è riuscita a diradare le nubi grigie della vergogna, squarciando le tenebre della perfidia e illuminando il mondo della pittura con i suoi accecanti capolavori.
Dopo aver assaporato il fiele della vita, Artemisia siede placida sulla balaustra di marmo, appagata dopo aver portato a termine la sua opera. Lo sguardo rivolto verso l'altro; il braccio sollevato; la mano semiaperta. Un ultimo gesto di assoluzione. L'estremo perdono di una donna che ha saputo elevarsi ed immortalare il proprio nome attraverso la sua arte: "vi è più onor nel perdonare, che piacer nella vendetta”.