Autopsia dell’autodistruzione. “Arte autodistruttiva. Per un'estetica della repulsione” di Jacopo De Blasio
Quando l’arte ha iniziato a darsi la morte? Perché, dall’elegiaca decadenza della grande tradizione perduta alla schizoide perversità degli scenari iper-contemporanei, è importante affrontare anche questa sfida radicale che l’arte pone a sé stessa? Il saggio di Jacopo De Blasio Arte autodistruttiva. Per un'estetica della repulsione (2024), edito da Postmedia books, è un testo rigoroso e specialistico, che si affaccia a tale quesito calando la sua ricerca in un orizzonte intellettuale di ampio respiro, toccando interrogativi vasti e ricorrenti nel dibattito pubblico, che incontrano l’interesse di chiunque si interessi di arte contemporanea, o di arte e di cultura in generale, andando incontro al lettore col suo linguaggio preciso e diretto. Cosa comporta l’autodistruzione nel panorama odierno? Come si è arrivati a questa apparente deriva iconoclasta? Possiamo davvero parlare di iconoclastia, vandalismo oppure abbiamo bisogno di nuove categorie?
De Blasio, col suo approccio critico, affronta la questione adottando una prospettiva sociale e politica, che non si limita a guardare l’autodistruzione come un fenomeno meramente nichilistico, e dunque cacofonicamente sterile. Oltre il fumo e le ceneri c’è dell’altro. C’è una (lunga) storia dietro questa presunta “deriva” della creazione artistica che viene messa a fuoco per la prima volta attraverso una disamina che legge uno spaccato della storia dell’arte con uno sguardo obliquo e diagonale, creando nuove relazioni e sfalsando narrazioni comuni. Dietro il folto insieme di artisti e opere citati e raccontati – che mostrano un lungo lavoro di ricerca – c’è una visione d’insieme che tiene presente il focus principale della ricerca senza relegare sullo sfondo le contraddizioni che questo spaccato rivela della nostra società, e del sempre più complesso sistema artistico.
Le sfaccettature esplosive dell’autodistruzione
Sotto l’egida di Gustav Metzger, col suo Auto-Destructive Art Manifesto (1960), De Blasio esplora il tema dell’autodistruzione nell’arte contemporanea, le premesse di tale sviluppo concettuale, le molteplici forme di complessità che caratterizza il fenomeno – dalle origini alla sua apoteosi –, arrivando alle prospettive future che possiamo leggere nel nostro presente. In questo senso, la scrittura cattura con agilità e spirito critico accadimenti che hanno fatto scalpore nella cronaca nazionale (e non), come l’imbrattamento della Galleria Vittorio Emanuele e le proteste ecologiste nei musei di Ultima Generazione e di altri movimenti ambientalisti. Quanto il monumento ideologizzato guida verso la sua autodistruzione come effetto collaterale della propaganda? In che senso la distruzione – fittizia – operata dagli attivisti nei cosiddetti templi della cultura collabora con la futura e inevitabile rovina a cui va incontro qualsiasi opera d’arte, che sia a causa della dissoluzione entropica o della crisi climatica.
La prospettiva di ricerca dello studioso, che abbraccia il portato espanso degli studi di cultura visuale, affronta l’indagine anche in termini sociologici e antropologici, per interpretare i suoi case studies in modo sintetico ed efficace. Questi che ho enucleato sono solo alcuni dei temi, forse quelli più “pop”, che vengono trattati e intrecciati con le opere d’arte e gli artisti, mai interpellati in modo strumentale per esemplificare una teoria o giungere a una conclusione, una presunta verità ultima sull’autodistruzione. Questo evento – infatti – viene rispettato ma mai sacralizzato. L’autodistruzione è moderna e antica insieme, ogni epoca e contesto la evoca e la interpreta in qualche modo, se ne fa interprete per rispondere anche a un bisogno psicologico, come il writer che con i tag afferma la propria identità in una forma di scrittura che rivendica e insieme deturpa, deturpando in questo processo anche l’identità stessa di (pseudo?) artista come figura orgogliosamente degradata, auto-infliggendosi una distruzione che mina il prestigio del suo ruolo simbolico. Ma andiamo in ordine, affinché la deflagrazione non arrivi che al termine di un percorso di lettura che guida idealmente alla lettura del saggio in questione.
Il saggio si apre con una storia in nuce dell’autodistruzione, dopo un’introduzione che anticipa alcuni dei temi ricorrenti e dei nodi concettuali del saggio, per contestualizzare dal punto di vista storico la tesi centrale e la struttura che propone. Questo approccio mostra una dimensione, seppur saldamente inquadrata, aperta alle complessità, alle sfaccettature e alle sfumature che ogni auto-sabotaggio comporta, poiché gli attori in campo sono svariati come le possibili variabili, tutte da inquadrare per non scadere nell’aneddoto, nella semplificazione o nell’ideologia. Quindi – prima dei presunti vandali e degli eco-attivisti – abbiamo artisti come Claude Monet e Agnes Martin che distruggono opere tarde o giovanili, ognuno per motivi diversi, a Man Ray che con l’odissea che accompagna l’opera, Object to be destroyed (1923), anticipa, senza tuttavia esserne il pioniere, il discorso sull’auto-distruzione. L’autodistruzione, dunque, albeggia anche nell’esperienza artistica di nomi incensati e immaginati come personaggi dediti alla “pura” creazione, dimenticando il suo necessario complemento e rovescio, che emerge in modi talvolta impensati.
Le prospettive, come si diceva, sono molteplici, e non si può per districarle non affrontare questioni di filosofia dell’arte e di estetica che riguardano la creazione, l’oggetto artistico e il concetto di autorialità. L’autodistruzione – al termine di questo percorso ma anche in principio ad esso, come un effetto collaterale imprevisto – non appare, dunque, come una deriva, un fenomeno giunto in extremis, quasi una delle tante stramberie di qualche artista star, ma come un qualcosa che intercetta un’oscura e informe molteplicità di istanze che mettono in discussione i valori della nostra cultura non (solo) per polverizzarli, ma per metterli alla prova. E allora Gustav Metzger – il suo pensiero, la sua ricerca – rivela tutto il suo protagonismo in questa vicenda critica, che espone e dischiude criticità. È lui che “apre” all’autodistruzione non solo per averla sistematizzata e affronta nella sua dimensione più radicale, ma anche perché la l’autodistruzione crea e produce un pensiero vivo in questo processo, che ci aiuta a leggere meglio i fenomeni artistici del nostro presente. Non a caso, De Blasio cita Walter Benjamin, con la sua concezione del futuro che non si offre all’orizzonte senza contemplare uno scenario di rovine. Le rovine non sono solo la decadenza o l’immagine luttuosa di un passato che si idealizza o si demonizza, ma possono essere qualcosa di ancora caldo che conserva traccia e memoria di una distruzione che vale la pena attraversare prima di constatare che ha fatto tabula rasa di tutto quello che c’era prima, e che forse sembra ci sia ancora adesso.
Autodistruggere per distruggere meglio
Un’opera d’arte non è solo un oggetto, solo un’immagine, solo un’idea, ma non è neanche solamente riconducibile ad un corpo, quello del soggetto creatore. L’autodistruzione fa riemergere in negativo tutti questi legami invisibili ma quanto reali, scottanti specialmente nell’istante della loro detonazione ultima. Quindi, ad esempio, il nesso fra corpo e oggetto appare come una forma di sacrificio – fra il tribale e l’autolesionistico, il rito e la patologia – e così, via, in quanto questa chiave di lettura dischiude modi sempre diversi di intendere “la fine”. Una fine che non ristabilisce nessuno status quo. Non si ripristina nessuno stato di partenza, perché ogni volta De Blasio fa parlare l’opera affermando il suo valore politico e sociale, la sua potenzialità di raccontare qualcosa in più di questa fine inscritta nel suo principio di creazione. E allora – per vivere il portato immaginifico di questo flusso di detriti e macerie fumanti – vale proprio la pena immergersi nella lettura, e vedere la quantità di discorsi che ogni opera e ogni artista riesce a portare avanti, nella distruzione, avvicinando prospettive apparentemente lontane, facendo crollare sterili differenze.
È difficile offrire una panoramica del saggio senza scadere nella generalizzazione, proprio perché non sono concetti aprioristici o fissazioni idiosincratiche a costituire l’ossatura del discorso cardine, ma una visione ispirata che vuole restituire giustizia a un fenomeno ancora poco indagato. Concludendo con Banksy, l'artista più popolare che con l'iper-mediatizzata autodistruzione di Love is in the Bin (2018) ha portato il fenomeno sotto i riflettori, De Blasio ci invita a comprendere, alla fine della sua analisi, che questo evento rappresenta solo la punta dell'iceberg di un discorso molto più ampio da esplorare. La distruzione si fa e non si dice, ma le parole possono farsi carico del suo portato distruttivo per portarla nel cuore del linguaggio, per accedere da un’altra parte alla soggettività dello spettatore e del lettore, rinviando all’oscura origine del fare artistico. Così la lettura di Arte autodistruttiva. Per un'estetica della repulsione diventa un modo per rovesciare quella repulsione che dovrebbe allontanare, per aggirare questo istinto evitante e sintonizzarci con l'eco della deflagrazione, facendola risuonare in noi.