Bottega Mortet, mani che modellano la Storia

Sul sito web c’è scritto “via dei Portoghesi 18”, ma la prima volta non è facile trovare la bottega Mortet. Venendo da Palazzo Montecitorio, alla fine della via c’è un edificio con una torre. Superato il portone principale e percorso il corridoio, nel chiostro troviamo Andrea Mortet che ci aspetta. La nostra prima curiosità è sul nome del palazzo, che viene chiamato “della Scimmia”.

Palazzo Scapucci, noto anche come Palazzo della Scimmia - Foto di Rafael Belincanta

Perché si chiama così?

L’ultima famiglia a cui è appartenuto erano gli Scapucci. A quell’epoca, nel Cinquecento, andava di moda avere animali esotici. Ma la scimmia che avevano in casa ha preso dalla culla, per senso materno, il bambino dei nobili e l’ha portato sulla torre, in cima. La gente si è accalcata, pregando la Madonna perché lo rimettesse a posto. Così è stato, e per ricordare questo evento hanno messo una statua di Maria in cima.

Voi della torre ne avete fatto un marchio.

Sì, mio padre ha allungato la M di Mortet, così somiglia a una torre.

Il marchio della bottega sulla polo di Andrea Mortet

Il vostro cognome si pronuncia “mortè” o “mortet”?

A Roma tutti ci chiamano “mortet”, anche se abbiamo origini francesi.

Avete ancora legami con la Francia?

No, ma sto facendo delle ricerche e ho scoperto che in Italia ci sono solo sei Mortet.

Un’illustrazione d’epoca all’interno della bottega Mortet - Foto di Rafael Belincanta

Sapete come i vostri antenati sono arrivati qui?

Probabilmente sono venuti in Italia i primi dell’Ottocento, dopo la rivoluzione francese, come maestranze che seguivano l’esercito. Prima si sono spostati in Piemonte, poi in Toscana. Mio bisnonno è nato a Firenze nel 1789, è arrivato a Roma dopo, per occasioni di lavoro.

Di che tipo?

Fece la Spada della Vittoria destinata per il Re, Vittorio Emanuele III, e i candelieri del Pantheon, che sono vicino alla tomba di Regina Margherita di Savoia.

La spada dov’è?

È conservata al Vittoriano. Mentre la Penna d’Oro con cui Papa Giovanni XXIII firmò la Sua prima enciclica sta ai Musei Vaticani.

Le vostre opere sono in giro per i musei di Roma.

Sì, infatti dico sempre a mio padre: “Scrivi quello che ti ricordi”. Perché molte volte neanche lo sappiamo, lo veniamo a scoprire dopo: un tempo non si facevano mica le foto. 

In questo spazio dove ci troviamo ora quando siete arrivati?

Dopo la guerra, mio nonno ha aperto qui la bottega nel 1947. È da cinque generazioni che portiamo avanti l’attività. 

Interno della bottega Mortet - Foto di Rafel Belincanta

Interno della bottega Mortet - Foto di Rafel Belincanta

È stato sempre così?

In realtà prima presero solo questo locale, perché vicino c’era un’astucciaio (ndr, chi fabbrica o vende astucci). Poi, quando sono venuti qui mio zio e i miei cugini, ci siamo allargati. Però sono stati solo per un periodo, ora lavorano a Oriolo romano. 

Per quale motivo?

Volevano fare un altro tipo di vita, diversa da quella della città.

Sul tavolo accanto a dove è seduto Andrea Mortet c’è una fiamma accesa.

La fiamma vi serve per lavorare?

Sì, questa che vedi ha un attacco a gas e mi permette di avere una fiamma più alta. Ma posso anche usare questa. Indica una boccetta con uno stoppino. Che fa fiamma con l’alcol.

È un modo antico?

Sì. E ha il vantaggio che posso portarla anche a casa e lavorare là. Ad esempio, quando vado a insegnare alla Scuola dell'arte della medaglia, porto questa.

Voi modellate la cera. Perché la vostra è rossa?

Per tradizione: mio nonno la faceva così. È cera d’api mischiata con un’altra cera vegetale, che la indurisce un pochino e la rende meno morbida. Poi ci si aggiunge il colorante, che si può scegliere di ogni tipo: giallo, verde, come ognuno preferisce. 

La vostra ha il colore del corallo. Dove la comprate?

Nei negozi di belle arti. È cera d’api. A volte ce la danno anche amici che hanno alveari, ma bisogna purificarla perché è molto grassa. Quella che usiamo noi si chiama cera garzuolo, penso che il nome derivi dal fatto che la filtrano con le garze. 

Avete usato sempre questa?

Da ragazzo mischiavamo anche le candele. Un tempo mio padre andava alla Chiesa di Sant’Agostino a prendere i mozziconi delle candele. Era una cera particolare, adesso invece non sono più come una volta, si vede che risparmiano. 

Tuo padre continua a lavorare?

Sì, ha 86 anni. Gli portiamo del lavoro altrimenti smette di vivere. E gli dobbiamo pure dire di andare piano: perché è velocissimo e finisce subito.

Il lavoro più difficile che avete fatto?

È questo (indica quello che ha davanti). È sempre l’ultimo. Vi faccio vedere come funziona.

Andrea Moret mentre modella la cera - Foto di Rafael Belincanta

Scalda la piccola spatola che ha in mano. Prima prendo un po’ di cera e poi passo a modellare i dettagli di questa scultura. Se, ad esempio, devo aggiungere una parte del corpo, lascerò cadere un goccetto di cera lì. Se invece devo rifinire la bocca, userò l’altro verso della “spatolina”. Vedi, ha due forme diverse.

Chi li fa questi attrezzi?

Noi. Questa forse era un raggio di una bicicletta. Per lavorare meglio, una parte l’ho resa un po’ più a punta e una un po’ più tonda.

Perché non comprarla?

Oggi si ha la mania di comprare tutto. Se la creo io, la faccio come “me pare a me”. Se mi si “acciacca” (ndr, schiaccia) la posso mettere a posto perché la conosco. L’ho fatta io. 

E se sbagli?

Cancello. Con la stessa spatola porta via la goccia di cera che ha appena lasciato cadere. È come se fosse una penna, devo essere bravo io a gestire il calore, la quantità, il momento in cui poggio la cera.

Una volta completata finisce così?

Va fusa e poi si trasforma in metallo.

Fondete qui?

Una volta fondevamo qui. C’era lì il forno (indica l’altra camera) e tutto l’occorrente. Ma c’è bisogno dei permessi per lo smaltimento degli acidi ed è un problema. E poi il forno va a 1000 gradi. Qui dentro, d’estate, si faticava parecchio.

Dove andate?

A una fonderia d’Arezzo, ci conviene. 

E la fusione come avviene?

Ti spiego. Tutte le statue in bronzo che vedi in giro per l’Italia, dal Marco Aurelio del Campidoglio al Perseo di Firenze, sono state fatte con la cera. Perché si utilizza la cera? Perché si scioglie. Prima si crea il modello e poi si crea un albero.

Un albero?

Sì, il tronco è la statuetta di cera e i rami sono questi tubetti. Prende dei piccoli tubi lunghi e li appoggia alla statuetta. I tubetti li devo attaccare in punti precisi, in modo che il metallo entri dappertutto. Quest’albero, poi, verrà inserito in un cilindro e immerso nel gesso refrattario, che resiste alle alte temperature, così l’oggetto rimarrà imprigionato dentro.

E dopo?

Lo metto nella macchina che fa il vapore. A quel punto la cera si scioglie e andrà via da questi canali (indica i piccoli tubi) lasciando un’impronta dentro quel gesso. Poi, dentro quell’impronta colo il metallo che andrà a occupare lo stesso spazio che era stato della cera.

Una statuetta in cera dentro la bottega Mortet - Foto di Rafael Belincanta

Che metalli usate?

Quelli che decide il cliente. Oro, argento, bronzo ottone, a seconda delle richieste.

In un angolo della stanza c’è una bilancia antica.

La usate ancora?

Sì, per sapere quanto ci costa un oggetto. Dal momento che a un grammo di cera corrispondono 10 grammi d’argento, pesandolo possiamo sapere quanto metallo ci occorrerà.

Su una parete della sala d’ingresso del laboratorio sono appese pergamene con scritto, in diverse lingue, “ai professori Mortet”.

Insegnate?

Abbiamo tenuto dei corsi in Messico, Ecuador, Perù e Bolivia. L’ultima volta sono stato a Potosí (ndr, Bolivia). Nel Seicento è stata una delle città più importanti del mondo. 

Il paradiso dell’argento (commenta Rafael Belincanta).

Sì, lì c’è una montagna che si chiama Cerro Rico (ndr, montagna ricca). Al tempo degli spagnoli era così (mette le mani a punta), adesso invece è rotonda a forza di prendere l’argento! Tantissimi artisti europei sono andati lì per lavorare. Solo che a 4mila metri non è facile, tutti i giorni devi bere mate di coca per sopportare la fatica. Pensa che, quando sono tornato a Roma, il dentista mi ha dovuto fare due volte l’anestesia, talmente ero assuefatto. 

Siete andati lì perché c’è una tradizione?

C’era già l’estrazione dell’argento ai tempi degli Indios e degli Inca, però la lavorazione si era un po’ persa. 

Sulla scrivania davanti ad Andrea Mortet c’è una coppa con scritto “FIFA”.

E questa? Che coppa è?

La Coppa del mondo per club FIFA. È del calciatore Marco Materazzi, che deve venire a riprendersela. Aveva preso una botta e l’abbiamo dovuta aggiustare.

Le coppe le fate voi?

Sì, le assembliamo noi. 

Avete anche il modello della coppa del mondo? (Chiede Rafael)

Certo, venite di là.

Alessandro Rosi mentre parla con Andrea Mortet - Foto di Rafael Belincanta

Passiamo prima in un ambiente dove c’è il forno, non più funzionante, poi in un altro pieno di attrezzi. E infine arriviamo all’ultima stanza, dove ci sono molti modelli.

Questa è una coppa del mondo in versione più piccola. Francesco Totti ce ne chiese una cinquantina. Le regalò agli amici quando vinse il mondiale.

Modello in cera della Coppa del mondo in versione piccola - Foto di Rafael Belincanta

Modello in cera della Coppa del mondo in versione piccola - Foto di Rafael Belincanta

A volte i giocatori, vedendo il modello finito in metallo, mi hanno detto: “È più bella questa di quella vera”.

Poi prende dallo scaffale un altro modello. Questa invece è la Coppa d’Africa. L’abbiamo progettata con il programma AutoCAD. Da lì abbiamo realizzato la forma, poi la cera e infine abbiamo fuso. 

Ci mostra poi delle piccole statue di Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini. Queste l’abbiamo fatte per Carlo Azeglio Ciampi, quando era Presidente della Repubblica. Le teneva sulla sua scrivania perché aveva visto i presidenti americani che sulla loro avevano Abraham Lincoln, e anche lui ha voluto fare lo stesso. 

C’è poi uno scaffale che è pieno di piccole gomme.

E queste cosa sono?

Sono gomme vulcanizzate. Si utilizzano per lavori più piccoli. Ne prende una e la apre. Qui dentro, ad esempio, c’è un anello. Con queste riesco ad avere il modello in cera subito, perché basta che la inietto dentro. È molto utile quando devo fare delle copie. Ne ho di tutti i tipi. 

Certo variate molto.

Guarda. Questi sono tutti cassetti con gomme diverse: primo anelli, secondo foglie, terzo animali, quarto medaglie, quinto chiese. Quando sono arrivato nella bottega, nel 1988, il mio primo lavoro è stato ordinarli. Mi hanno detto: “Metti un po’ a posto ste cose”. 

Su una parete ci sono dei disegni di piazza Navona.

Chi li ha fatti?

Mio padre. Ha fatto piazza Navona cinquant’anni fa. È andato là, ha fatto le foto e poi il disegno. Prima andavano molto. Nel suo studio, Giulio Andreotti aveva le “nostre” fontane. 

Quanto viene una?

D’argento sarà sui 15-20 mila euro. Dipende poi dal metallo che vuoi utilizzare e dalla base, se in marmo o altro materiale.

Banco da lavoro nella bottega Mortet - Foto di Rafael Belincanta

Banco da lavoro nella bottega Mortet - Foto di Rafael Belincanta

Vi considerate degli artisti?

Sì, secondo me lo siamo. Ma questo non vuol dire che siamo meglio di altri. Secondo me, quando fai un oggetto che crea un’emozione a chi lo presenti, allora sei un artista. Poi, se mi chiamano artista, professore o maestro è uguale, io sempre devo venire qui la mattina a lavorare (ndr, ride). In tanti lavori si guarda l’orologio perché non si vede l’ora di tornare a casa. Io, se non finisco un lavoro entro fine giornata, non sono sereno. Penso sempre al mio lavoro, anche mentre passeggio. Perché può venire fuori un’idea per un nuovo progetto. Avendo la fortuna di abitare a Roma, anche solo guardando un palazzo posso trovare lo spunto. In questa città tutto può essere d’ispirazione. 

Tu che hai visto l’evoluzione del mestiere, tra cento anni pensi ci sarà ancora la manualità o un’attività del genere sarà sostituita dal computer? (chiede Rafael)

Non penso sarà tutto al computer. Certo, alcuni mestieri sono scomparsi. Però, degli oggetti fatti a mano, rimane qualcosa della persona che li ha creati, mentre con il computer no. Tutti abbiamo a casa oggetti che magari non valgono molto, ma che, quando li guardiamo, pensiamo a chi li ha realizzati: perché ci trasmettono qualcosa. 

È un valore accresciuto. (commenta Rafael)

È un’altra cosa, perché c’è dentro lui, l’artigiano.

Dante Mortet mentre parla con una cliente - Foto di Rafael Belincanta

Tornando verso la sala principale, notiamo una pergamena disegnata sopra un bancone.

Cosa c’è raffigurato?

Sono gli attrezzi da lavoro che mio padre ha trovato in un libro, un piccolo manuale francese. 

Sono davvero tanti. 

Sì, molti non si usano neanche più. Pensa che in Bolivia ho visto usare alcuni attrezzi per battere il metallo e fare le lastre. Qui non si usa, perché si comprano già pronte. Ma lì non se lo possono permettere e allora le fanno loro. L’artigiano è quello che pensa come poter risolvere il problema ogni singolo lavoro. Ed è questo che ci distingue dalle macchine. 

Attrezzi della bottega - Foto di Rafael Belincanta

Attrezzi della bottega - Foto di Rafael Belincanta

Ci hai mostrato come si modella la cera. Come si lavora invece a cesello?

Il cesello permette di modellare il metallo. Se dobbiamo lavorare una lastra, possiamo stampare la figura (c’è una pressa storica all’ingresso, ancora funzionante) oppure realizzarla tutta con lo sbalzo. 

Ovvero?

Grazie ai ceselli, battendo da dietro sulla lastra do volume e creo la figura. Poi, quando cesello, rifinisco ciò che ho fatto. Di solito appoggio il pezzo su questa mezza palla di marmo con composto di pece greca e bitume. L’abbiamo fatta noi: serve per poter mettere l’oggetto e bloccarlo. È utile perché così il colpo viene attutito e si lavora meglio. Nel lavoro a cesello serve tanta manualità e tanti ceselli.

Di tutte le misure.

Ogni ferro so a cosa mi serve. Ma li creo anche in funzione di quello che mi serve.

Ceselli dentro ad alcuni contenitori - Foto di Rafael Belincanta

Prende un ferro. Questo ad esempio si chiama “ferro a cavallo”. Perché? Perché va a cavallo della quella superficie per lisciarla.

Avete anche tanti martelli diversi. 

Sì. E ognuno ha una funzione diversa.

E questo?

Serve per saldare. A un’estremità attacco il tubo del gas e, soffiando. esce la fiamma, che regolo con il mio respiro.

Saper usare il cesello sembra molto difficile.

Per me è più difficile rispetto a modellare la cera, perché devi pensare l’oggetto che vuoi realizzare da dietro, ma calcolando lo spessore della lastra. Dipende molto dalla sensibilità della mano, dalla forza del colpo, da come tieni il cesello. Naturalmente, se faccio una cosa io e una mio fratello, escono due cose diverse.

Il bello del lavoro artigiano.

Sì, anche se come bottega abbiamo un nostro stile. Capita spesso che lui mi lascia un oggetto da finire o viceversa.

Lavorate spesso insieme?

Lavoriamo insieme, mangiamo insieme e litighiamo insieme.

Dante Mortet - Foto di Rafael Belincanta

Dante Mortet - Foto di Rafael Belincanta

Interviene Dante Mortet.

Avete parlato con Andrea, il numero uno della bottega! (scherza)

Dante, perché usate quest’abito?

Prima usavamo dei camici normali. Poi abbiamo visto una foto di nostro nonno con questo camice e allora l’abbiamo fatto fare. Ci caratterizza. Sembra che siamo usciti da un film.

Qual è il lavoro cui sei più legato?

L’elefante della Minerva. È stato il mio primo lavoro. Poi ne hanno fatto un premio che hanno regalato a McCain. E ho dovuto fare anche la versione con l’asinello, che hanno dato a Obama. La soddisfazione di dire che il presidente degli Stati Uniti ha ricevuto un oggetto fatto da te è importante.

Ma quello che mi dà più energia ora è il progetto Mano Artigiana. Quando ho realizzato la mano dell’attore Robert De Niro, lui si è emozionato e mi ha abbracciato. Non lo avrei mai immaginato. Mentre Ennio Morricone mi ha detto: “Dante è un grande artista”. Io ancora non ci credo.

Ci racconti di più di questo progetto?

È un progetto iniziato dalle botteghe artigiane, con la volontà di mostrare in sintesi qual è lo strumento che ci permette di realizzare le nostre opere. La mano. Uno strumento che mette in condizione cuore e mente di far apprezzare la fantasia dell’uomo. Crea la musica, crea l’arte, crea amore. Dobbiamo rimettere la mano al centro del processo produttivo. L’economia crolla perché nessuno vuole più lavorare con le mani. Ma è quando l’uomo ha lavorato con le mani che ha sviluppato la mente. 

Com’è nato?

La prima mano è stata quella di mio padre. Perché? Vi racconto. Negli anni Settanta a mio padre era stata commissionata la statua di un santo: San Paolo della Croce. Doveva fare il volto, la mano e i piedi. Si concentra sul volto e si dimentica le mani. Lo chiama il monsignore e lui, dovendo sbrigarsi, fa le mani usando il calco delle sue. Per i suoi 25 anni di matrimonio siamo andati nella chiesa dove è ancora conservata la statua. Durante la cerimonia mi dice: “Vedi il santo? Ha le mie mani!”. Allora penso: “Se un domani avrò dei figli, voglio fargli vedere le mani di mio padre”. È così che è nato il progetto. Considera che mio padre, quando tornava a casa, aveva la mani sporche della cera. E noi a tavola lo prendevamo in giro. Gli dicevamo: “Pà, lavate ste mani!”. Invece poi abbiamo capito che quelle mani non erano sporche, ma vissute e ci permettevano di mangiare.

C’è una mano che ti ha emozionato di più?

L’emozione più bella è stata quando la moglie di Kirk Douglas ha preso la mano di bronzo, se l’è portata al cuore e l’ha accarezzata. Non me lo scorderò mai. Quella mano, in quel momento, non era di bronzo: era la mano di Kirk Douglas. Quella mano rimane per sempre testimonianza dell’essenza di un grande attore. Tu sei fotografo? Chiede a Rafael. Ecco, quando scatti allinei cuore e mente. 

C’è una mano che vorresti fare?

Quella del fotografo Salgado. Perché credo sia una grande mano. Le mani del regista Quentin Tarantino le avete viste?

Le prende da una teca dietro la scrivania. Le abbiamo fatte per il film The Hateful Eight, durante le riprese in Colorado. E questa è la pellicola originale del film firmata da Tarantino.

Le mani scolpite di Quentin Tarantino - Foto di Rafael Belincanta

Farete una mostra?

Vorremmo.

Le mani si possono poi interpretare in tanti modi. Ci mostra un’altra scultura.

Scultura delle mani dei Baglioni - Foto di Rafael Belincanta

Queste sono le mani dei proprietari dei Baglioni, che hanno hotel a Milano, Roma, Venezia e Firenze. Una mano è del più anziano, l’altra del figlio (oggi amministratore delegato) e poi c’è quella del nipote. Tutte e tre legate da una corda che non si ferma mai. Il nipote sostiene gli altri due che lo proteggono. Qui dentro ci sono simbolicamente tre generazioni, un impero commerciale, ma di fatto c’è sempre la manualità. 

Come le realizzi?

Prendo il calco della mano, faccio il silicone e da quello ho il modello in cera. Una volta abbiamo fatto le mani di Julio Cesar, il portiere della nazionale Brasiliana. Abbiamo fatto la mano tesa, come se stesse parando, e una dedica sotto “la mano che difende il Brasile”. Purtroppo poi, però, avete preso 7 gol dalla Germania (fa a Rafael, che è brasiliano). Forse ne avremmo dovute fare di più, così chiudeva tutta la porta la chiudeva tutta. Julio Cesar è una bella persona. Ci ha anche portato in spiaggia a giocare a a pallone insieme a Ronaldinho, lui e Zico. Lo vedevo nelle figurine e poi mi ci sono ritrovato a giocarci insieme. Non ci potevo credere.

Quali altre mani avete scolpito?

Per me è importante la mano di Robert De Niro, che è noto e attira di più, come quella del fornaio, perché è frutto di un sapere antico. Perché quelle mani si muovono sul grano, che è qualcosa che ci sostiene da migliaia di anni. E per questo sono centrali le botteghe. Perché non solo si tramanda il sapere artigiano, ma sono anche luoghi dove si incontrano persone. 

È importante viverle.

Sì, bisogna starci nella bottega. Entrate voi e io apprendo qualcosa, poi entra un signore, un attore e così via. Diventa un crogiolo di persone.

E un momento di condivisione. 

Sì, la bottega è sociale e crea un’economia sociale. Anche perché aiuta a superare i momenti bui. Potrei mai mandare via mio figlio dalla bottega? Potrei mai licenziare mio fratello? No. E quindi, anche in momenti di crisi come questo, la bottega rimane unita e supera le difficoltà.

Lì vicino a noi c’è Lorenzo, il figlio di Dante.

Lorenzo Mortet, figlio di Dante

Lorenzo, anche tu modelli la cera?

Ho fatto una rosa, degli orecchini e qualche anello. Ho iniziato durante la quarantena. E poi ho disegnato molto. 

È importante disegnare?

Sì, ti rendi conto di quanto è importante usare le proporzioni. 

Ti piacerebbe continuare in futuro il mestiere di tuo padre?

Sì.

Usciamo dal Palazzo con il naso inebriato dall’odore di una bottega. Il legno scaldato insieme alla cera d’api pervade le nostre narici di un profumo dolciastro. Un odore unico, come questo lavoro artigianale.

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