Doug Johnstone - Colpisci e scappa
“Tra questi libri, quale mi consiglieresti di leggere assolutamente?”. Ho fatto questa domanda a più o meno tutti i membri dello staff di CasaSirio che mano a mano mi capitava di incontrare allo stand di Più Libri Più Liberi. La risposta è stata sostanzialmente unanime ed immediata: “Devi leggerti ‘Colpisci e scappa’ di Doug Johnstone”. Ora, se tenete conto che eravamo ad una Fiera e che avevano in serbo novità piuttosto rilevanti per la loro crescita futura, capite che -per logica- su quelle avrebbero dovuto calcare. Invece no, tutti hanno convenuto sul fatto che questo libro sarebbe stato quello che più mi avrebbe stimolato, e di fronte a cotanta sincerità ed entusiasmo non ho avuto alcun dubbio su cosa acquistare; perciò eccoci qui, un “ Colpisci e scappa” più tardi.
Occorre innanzitutto che vi dia un elemento importante: tra gli altri, ho avuto modo di chiacchierare del libro con Alessandra Brunetti, la traduttrice del romanzo, che mi ha dato una chiave di lettura molto utile nel leggere e giudicare; mi ha detto “Questo libro è cinematografico, dovrebbero trarne un film”. Niente di più vero, “Colpisci e scappa” è più sceneggiatura che romanzo. Volete che vi dia prima la “notizia buona” o la “notizia cattiva”? Dato che le recensioni interattive ancora non esistono (per ora accontentatevi di Black Mirror) sceglierò per voi e vi darò quella “cattiva”: ciò che vi ho descritto poco fa è il difetto congenito del libro; succede più o meno esattamente ciò che ci si aspetta che accada, proprio come nei film quando appartengono ad un genere che ha delle caratteristiche ormai fin troppo delineate. Il genere, in questo caso, è il “gangster movie” con atmosfere “noir”, quindi eccovi serviti criminali incalliti con aria da veri duri, belle pupe, reporter d’assalto assetati di scoop, poliziotti un po’ tonti e un classico linguaggio da poliziesco. Soprattutto il finale si connota per una dinamica piuttosto scontata, così come invece le prima pagine risultano abbastanza lente e macchinose. Tuttavia la notizia buona compensa in pieno quella cattiva: il difetto è veniale. La verità è che per quanto scenografico possa apparire, il testo poggia su una base ben più solida, ovvero quella psicologica.
Prima di spiegare perché, permettetemi di accennarvi la trama: in una Edimburgo estiva tre ragazzi, Billy (il protagonista), Zoe (la sua fidanzata) e Charlie (fratello di Billy) stanno tornando a casa da una festa in cui non si sono trattenuti dal bere parecchio e mandare giù le pillole che Charlie, di professione medico, ha trafugato dalla dispensa dell’ospedale; alla guida della vecchia Micra rossa appartenuta alla madre, Billy, per evitare i controlli che la polizia era solita fare sulle strade principali, si inoltra in una stradina più isolata. Annebbiati dal mix di alcol e droghe, i tre si distraggono a guardare il cielo stellato… è un attimo: un improvviso schianto contro qualcosa che sbatte sul cofano e poi sul parabrezza; la frenata è brusca e Billy batte violentemente la testa contro il volante. Feriti ma vivi, i tre scendono dalla macchina e si trovano davanti lo spettacolo raccapricciante di un uomo elegantemente vestito steso a terra, in una pozza di sangue. Charlie si avvicina per sentire il battito, ma la sua diagnosi non lascia dubbi: il tizio è morto. I tre sono nel panico e poco lucidi, Billy vuole chiamare i soccorsi mentre Charlie e Zoe vogliono fuggire per paura delle conseguenze; come sempre, la maggioranza vince e, una volta spostato il corpo sul ciglio della strada, risalgono in macchina e si rifugiano nella casa che condividono. Il “colpisci e scappa” è servito, peccato ci siano due dettagli a complicare la situazione: il primo è che Billy è un aspirante cronista di ‘nera’, in tirocinio presso un giornale locale, e il mattino seguente viene chiamato da Rose, la sua mentore, per andare proprio sulla scena del (suo) crimine; il secondo è che, una volta lì, scopre che l’elegante tizio morto altri non è che Frank Whitehouse, il più famigerato gangster di Edimburgo. Dalla sera alla mattina dunque Billy si ritrova ad essere un giornalista tirocinante assassino di gangster che per non destare sospetti deve seguire diligentemente il caso sotto lo sguardo attento di Rose, che ha tutta l’intenzione di scoprire la verità senza sapere che quella verità le cammina accanto. Per non farsi mancare nulla, Billy si ritrova innamorato di Adele, la bellissima vedova di Frank, dando definitiva forza a quel vortice di ambiguità, omertà, tradimenti e sete di vendetta che lo centrifugherà facendolo pian piano a pezzi.
Come dicevo, il romanzo ha una connotazione prettamente psicologica, incentrata sul far vivere in prima persona al lettore la situazione assolutamente paradossale in cui si trova coinvolto il protagonista. Billy combatte la sua battaglia da solo, e questo senso di solitudine ci attanaglia insieme a lui. Ciò che trovo magistrale è il modo in cui viene trasmessa la drammaticità della vicenda, attraverso l’uso di una serie di elementi figurativi: come ho scritto nella trama, nell’incidente Billy sbatte violentemente la testa sul volante, procurandosi una ferita che lo accompagnerà per tutto il romanzo e sarà un fattore importante nel suo lento sgretolarsi; ecco, la ferita fisica è in realtà la materializzazione della ferita morale e dello spirito, rende concreto, tangibile e doloroso ciò che altrimenti non potremmo percepire e vedere. Un secondo elemento è la presenza costante e incombente delle Salisbury Crags, ovvero il complesso roccioso che domina Edimburgo; è proprio sulla strada sotto di loro che avviene l’incidente, e da quel momento come per una maledizione Billy si ritrova continuamente a osservarle e ad essere da loro osservato, si perde il conto delle volte che le Crags vengono nominate, e non a caso saranno il teatro dell’epilogo; anche in questo caso, però, l’elemento fisico si traduce in una metafora di uno stato psicologico, che in questo caso è il macigno della verità nascosta che pesa sulla coscienza di Billy, una verità dalla quale non può scappare e che è sempre lì davanti ai suoi occhi, presenza inquietante. In ultimo, la figura della cagnolina Jeanie, un esemplare di collie che Billy adotta al canile in un gesto istintivo, forse rendendosi conto che le persone intorno a sé l’hanno ormai abbandonato, o semplicemente non possono fare nulla per lui; l’animale diventa l’unico essere vivente con il quale Billy riuscirà a mantenere la sua umanità e dal quale riceverà quel briciolo d’amore che lo terrà attaccato alla vita; Jeanie, a partire dal fatto che da lei prende il nome, assume sotto ogni aspetto la forma della reincarnazione ideale della madre di Billy, quella madre che in quel momento avrebbe voluto vicino per confortarlo e consigliarlo, o anche solo abbracciarlo e forse per questo il ragazzo sente spesso il bisogno di abbracciare Jeanie, affondando il viso nel suo pelo morbido e accogliente; inoltre, quando ormai ognuno cerca di salvare solo se stesso e nessuno ha più a cuore le sorti di Billy, solo lei sarà lì con lui fino in fondo, anche a costo di rischiare la sua stessa vita, proprio come farebbe una madre col figlio.
Johnstone, dunque, combina pochi elementi ma lo fa con grande maestria, magari concedendo meno spazio alla fantasia, ma ottenendo con grande efficacia il risultato di entrare nella testa del lettore e fargli provare un realistico senso di angoscia e preoccupazione. Il linguaggio da ambiente criminale, scurrile ma mai esagerato, contribuisce a garantire un ritmo sostenuto alla vicenda bilanciando la negatività di cui è impregnata. Merito, in tal senso, anche della traduzione della Brunetti che riesce nel sempre complicato intento di dare l’impressione che il romanzo sia stato scritto direttamente in italiano.
Per concludere, tralasciando quelli che possono essere i pregi o i difetti del libro (che ci sono entrambi, come in qualunque romanzo), vorrei che vi chiedeste questo: quante volte vi è capitato di terminare un libro e accorgervi di avere le mani sudate per la tensione?
Buona lettura.