Gli spazi del contemporaneo e la collezione di una vita: il Museo Carlo Bilotti
Tra giochi d’acqua, teste di satiro e vasi di pietra, in quel gioioso turbinio barocco che è Villa Borghese, trova spazio un piccolo edificio, una galleria d’arte modesta, il segno di un uomo nella transitorietà della vita.
Nell’Aranciera di una delle più belle ville di Roma, il Museo Carlo Bilotti dedica le sue rinnovate sale a collezioni temporanee e permanenti, motivando un desiderio di visite multiple per ammirare il nuovo e per contemplare, forse con maggiore attenzione, il “già visto”.
Il palazzino è molto antico, precedente persino ai primi seicenteschi restauri del cardinale Scipione Borghese, membro di quella nobile famiglia che interverrà sulla sua struttura fino alla fine del Settecento, rendendolo totalmente avulso dal suo aspetto originario.
L’edificio fu sede di feste ed eventi mondani fino al 1849, quando venne distrutto durante la difesa della Repubblica Romana, e rimase tale, finché, nel 1903, Villa Borghese divenne di proprietà del comune di Roma: destinato ad uso abitativo prima e a sede religiosa poi, dopo “decenni di incurie” , nel 2006 finalmente il museo apre al pubblico, totalmente restaurato.
Attualmente ospita due mostre di artisti contemporanei e la meravigliosa permanente donata dal collezionista Carlo Bilotti, da cui prende il nome, tutto totalmente gratuito.
Gli interni, nella loro sobrietà, ben si adattano ad opere di natura contemporanea, come la nuova produzione di Benedetto Pietromarchi – fruibile fino al 13 dicembre 2020 – il quale, indagando sull’ambiente, ne preleva i materiali, finendo così per accostare gli intrecci imponenti di radici di quercia a festosi pappagallini verdi di ceramica, evidente richiamo ai piccoli abitanti del parco. Ma questa matericità è anche capace di allontanarsi dal suo uso deputato: ed ecco che allora, la terra della villa, si eleva dal suo abituale status di calpestata e raggiunge le tele, sulle quali diventa pittura e immagine.
Il piano secondo si fa portatore di temi difficili: nel suo astrattismo assoluto l’artista Renata Rampazzi firma la serie “Cruor” – fino al 10 gennaio 2021 – trascinando lo spettatore in un percorso fatto di colature e lacerazioni, che colpiscono violentemente la coscienza umana. Senza nessun richiamo a figure riconoscibili e senza nessuna anteposta lettura o preparazione, il significato è lampante: in un labirinto di rossi, morbidi e carmini, crudeli e feroci, la potenza della non forma grida quella violenza così evidente, urla di denuncia verso una società cieca. Un sentiero che termina in un’installazione inizialmente spaventosa, un passaggio delimitato da teli sanguigni, la decisione dolorosa di un cammino catartico che supera la paura e, nell’uscirne, inizia alla guarigione.
Le ultime sale del museo sono dedicate alla collezione Carlo Bilotti: imprenditore internazionale tra gli anni Settanta e Novanta, vive, lavora e viaggia tra le più belle città del mondo. Tra New York, Parigi, Londra, Zurigo – per citarne alcune – Carlo Bilotti, con la moglie Tina, conosce artisti e personalità incredibili, da Warhol a De Chirico a Dalì, collezionando le loro opere e decidendo di renderle fruibili al pubblico negli ultimi anni della sua vita.
In una stanza lunga e rettangolare, immobili e silenziose, le tele di De Chirico si lasciano osservare, nel loro mutismo metafisico sembrano omaggiare il defunto proprietario, adempiendo al loro compito di opere d’arte, rispondendo agli ultimi desideri di una fruizione pubblica, segno di gratitudine verso una vita luminosa, un’ apparenza perfetta che nasconde il grande dolore della perdita: la scomparsa prematura di Lisa, la figlia tanto amata ritratta insieme alla madre da Warhol, in un’ elaborazione foto-pittorica di coppia rarissima.