Francisco Goya e il sogno della ragione
Nello sviluppo artistico di Francisco Goya qualcosa intervenne intorno ai primi anni novanta del Settecento, quando nei suoi dipinti le atmosfere ariose e i colori luminosi si mutano in ambientazioni cupe e claustrofobiche. È possibile che, almeno in parte, la causa di questo vistoso cambiamento sia dovuta a una grave e misteriosa malattia che lo colpì tra il 1792 e il 1793; un male «per scarsa riflessione», come lo definirà in un’occasione il pittore, forse alludendo alla sifilide. Fu negli anni successivi a questo incidente che Goya lavorerà ai suoi Cuadritos e, qualche anno dopo, ai Capricci, una serie di incisioni a carattere vagamente enciclopedico e venate da un senso di esoterismo. Per la loro commercializzazione, Goya, probabilmente non senza ironia, sceglierà un negozio di liquori in Calle del Desengaño, la via dove risiedeva: il giorno della pubblicazione delle ottanta tavole, il 6 febbraio del 1799, il pittore annoterà nel suo diario che quelle creazioni avrebbero dovuto rivestire un ruolo pedagogico nel mostrare gli eccessi di un animo «oscurato e confuso dalla mancanza di rischiaramento e surriscaldato dalla sfrenatezza delle passioni». I disegni, che trasudano simbologie oscure e inquietanti, rappresentano, almeno secondo un primo livello di lettura, una denuncia dei vizi della società spagnola di quegli anni turbolenti.
Entrando nello specifico, vorrei adesso soffermarmi su quella che è forse la più celebre di queste incisioni, la tavola numero 43, conosciuta con il titolo Il sonno della ragione genera mostri. Vediamo un uomo, forse lo stesso Goya, seduto a un tavolo, abbandonato in un sonno inquieto popolato da mostruose creature notturne. Questa conturbante immagine si è imposta come un’icona del pensiero illuminista, complice anche la didascalia apposta in basso che sembra non lasciare spazio a interpretazioni. In effetti, la critica ha sempre concordato nel sostenere che Goya, perfettamente in linea con le istanze illuministe, abbia voluto sottolineare il pericolo a cui si espone l’uomo quando lascia che la ragione si addormenti, generando le più turpi mostruosità. L’opera sarebbe quindi scaturita dal clima di discussione sul giusto uso della Ragione (come ne abbiamo traccia anche nelle speculazioni di Johann Gottlieb Fichte che, in La prima introduzione alla dottrina della scienza, tratterà anche della distinzione tra due atteggiamenti filosofici non conciliabili, l’idealismo e il dogmatismo). Il filosofo non mancherà di ribadire il primato del primo comportamento sul secondo, ritenuto anzi pericoloso. Solitamente, si indica in questa incisione proprio il pericolo dell’atteggiamento dell’uomo dogmatico, di colui che si “addormenta” senza avere la volontà di modificare il mondo che abita.
Tuttavia, la questione può farsi più complessa se pensiamo al clima di malcontento che si stava diffondendo in Spagna anche tra le frange illuministe più convinte. La leggerezza e la gioia di vivere che avevano caratterizzato il terzo quarto del XVIII secolo sembravano estinguersi, travolte dal parossismo della Rivoluzione. Basti pensare che erano gli anni in cui in Francia la ghigliottina, “il rasoio nazionale”, seminava il terrore; gli anni in cui si venerava la Dea Ragione e Robespierre organizzava processioni in onore all’Essere Supremo. Ma erano, soprattutto, gli anni in cui l’incerto governo spagnolo danzava con la Francia, minacciando antichi valori ancora vivi in una larga parte di intellettuali presso cui serpeggiava il timore di essere scivolati in un colossale e sanguinoso inganno. A testimonianza di quest’atmosfera possiamo pensare anche a un altro scritto di Fichte, Contributi a rettificare il giudizio del pubblico sulla Rivoluzione francese, che assume il carattere di una difesa d’ufficio di un fenomeno, quello della Rivoluzione, che evidentemente stava suscitando forti preoccupazioni. Ecco, allora, che le disturbanti visioni dei Capricci, e in generale di gran parte della dolorosa produzione pittorica della maturità artistica di Goya, acquisirebbero il significato di un grido d’accusa nei confronti di quell’illuminismo spagnolo che, sposando acriticamente i valori propugnati dalla Francia, stava trasformando la penisola iberica in un luogo di cruente e sanguinose repressioni. In quest’ottica il “sonno della ragione” potrebbe, forse più propriamente, essere interpretato come un “sogno della ragione”: il sognare di imporre la ragione al mondo, come sembrava volessero fare le armate della Francia rivoluzionaria. Del resto, la stessa parola “sueño” in spagnolo – come nel latino somnium – può significare tanto “sonno” quanto “sogno”. Non sembra improprio pensare che nel raffinato tratto pittorico, nelle enigmatiche didascalie e, in generale, in ogni più apparentemente insignificante dettaglio delle opere di Goya, si celi un metalinguaggio puntuale e preciso. Tra l’altro, anche riguardo all’equivoco sonno/sogno che – mi piace pensare – sia stato preso in considerazione dall’artista, si nasconderebbero le riflessioni di William Shakespeare e Calderon de la Barca, nelle cui opere venne spesso indagato il tema del rapporto tra la vita biologica di un individuo, il sonno e il sogno. «Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra piccola vita e circondata da un sonno», recita Prospero nella Tempesta, tema che sarà sviluppato anche da Calderon de la Barca in un classico della letteratura spagnola, La vida es sueño, dove veniamo irretiti in uno snervante gioco di rimandi, dubbi e incertezze, ben esemplificati nel celebre passaggio «¿Qué es la vida? Una ilusión, una sombra, una ficción; y el mayor bien es pequeño; que toda la vida es sueño, y los sueños, sueños son.» (pressoché intraducibile in italiano proprio perché giocato sull’ambiguità di una parola, una parola che assurge a metafora della vita stessa).
È curioso come la stessa Fondazione Goya, allineata con la lettura corrente, interpreti la parola “sueño” esclusivamente nel suo significato di “sonno” ma, contestualmente, suggerisca come modello ispiratore della composizione di Goya il frontespizio di un’opera pubblicata più di un secolo prima, L’alfabeto in sogno (e non “in sonno”) di Giuseppe Maria Mitelli, in cui è rappresentata una figura assopita a un tavolo, forse il pittore stesso, circondata da raffigurazioni fluttuanti e oniriche relative ai sensi. La composizione del Capriccio è, in effetti, molto vicina al modello di Mitelli, soprattutto nella sua valenza semantica. Anche qua vediamo una figura, certamente in questo caso l’artista stesso, Goya, rapita in sonno e circondata da misteriose creature notturne: animali totemici legati a un immaginario pauroso e sfuggente, ma anche metafore di affilata percezione, di capacità di visione nella notte. Sognare di imporre la ragione diventa un assalto alle dimore dove, nell’ombra, riposa il più remoto animo dell’uomo.
Oltre a ciò, può essere utile ricordare la genesi che ha portato alla stesura definitiva de Il sonno della ragione genera mostri. Essa inizia con uno schizzo realizzato intorno al 1797, oggi conservato al Museo del Prado, in cui vediamo un uomo spossato, riverso sul tavolo, caduto in un sonno profondo e con le mani intrecciate in un gesto di preghiera. A differenza della versione definitiva la scrivania risulta meglio delineata e, ai suoi piedi, c’è l’abbozzo di un grande disegno con l’immagine di una donna. Dalla testa reclinata dell’uomo prorompe un’esplosione di luce, mentre una serie radiale di tratti circonfonde la figura di un’aura febbrile. All’interno di questa luce si delinea il volto, identificabile in quello dell’autore stesso, deformato dalla sofferenza e dall’angoscia, ma che tende, seguendo il moto ascendente del cono di luce, a rasserenarsi sempre più, fino al raggiungimento di uno stato di dolorosa pacatezza. Ai margini della composizione si affastellano, oltre alle immagini di quegli animali che diventeranno familiari nelle successive stesure, altre equivoche creature come muli, leoni, lupi. È probabile che questa prima versione sia il frutto di una dolorosa pena d’amore patita da Goya per la sua difficile storia con la Duchessa d’Alba. La figura che si intravede in basso, disegnata nel bozzetto appoggiato alla scrivania, potrebbe pertanto essere la stessa amata che sarà protagonista di una delle tavole più enigmatiche e tristi dei Capricci, la numero 61, significativamente intitolata Volaverunt. A questa versione ne segue una seconda che, pur differendo di poco da quella finale, riveste un particolare interesse poiché corredata di due note autografe. Nella prima si legge «Idioma universal. Dibujado y grabado por Francisco de Goya. Año 1797»; nell’altra è scritto «El autor soñando. Su intento solo es desterrar vulgaridades perjudiciales y perpetuar con esta obra de Caprichos, el testimonio sólido de la verdad. 1797». Le trasposizioni italiane preferiscono tradurre “soñando” con “nel sonno” quando, in questo caso, la lingua spagnola non contempli ambiguità: “soñando” significa “sognando”, altrimenti Goya avrebbe usato il termine “en su sueño”, oppure il più comune “durmiendo”. Inoltre, a cosa si riferisce l’artista quando scrive di un “idioma universal”? È la lingua dell’arte o quella dell’amore? O, forse, è un ironico riferimento al nuovo linguaggio universale imposto dalle baionette della rivoluzione. In questo caso non ci sono risposte univoche, se non tra quelle sbagliate e, considerando il carattere onirico e surreale dei Capricci, è possibile che Goya alludesse al linguaggio immaginifico che scaturisce dai sogni, l’unico in grado di esprimersi per simboli e andare diritto al cuore parlando una lingua che non appartiene alla ragione. Del resto, come scriveva Calderón de la Barca «tutti sognano ciò che sono, ma nessuno lo comprende».