Yasunari Kawabata, “Mille gru” e “Il disegno del piviere”

Nella postfazione Cristina Ceci riporta le parole pronunciate da Kawabata al momento della consegna del premio Nobel, nel 1968: «La verità sta nel “rigetto della parola”, in tutto ciò che è “al di fuori della parola”».

Ecco, nel leggere questo libro più volte ho osservato come Kawabata faccia piombare il silenzio nell’attimo esatto che precede un avvenimento, un avvenimento significativo, si intende: l’incontro con la signora Ota, quello con la signorina Inamura, quello finale con Fumiko.

Amore non sta per baciare Psiche, Amore sta per sbattere le ali per andare da Psiche a baciarla, è qui che Kawabata cessa di raccontare. Ciò che succede dopo non viene taciuto completamente, ma viene svelato piano piano, indirettamente, attraverso il filtro dei ricordi: così veniamo a sapere che la signora Ota e Kikuji sono stati amanti, che la signorina Inamura aveva un profumo inebriante, che la coppa Shino è stata infranta. Ma, metaforicamente, vediamo i cocci già rotti, già sparsi in terra, non udiamo il suono dell’infrangersi della ceramica, né vediamo il rapido gesto del braccio che l’ha scagliata.

Sebbene sia lecito definire Kawabata come uno scrittore caratterizzato da una rara delicatezza, bisogna avere ben chiaro cosa s’intenda con questo termine. Infatti, si potrebbe scambiare il fatto di non mostrare l’atto violento - scagliare la coppa Shino - con tale virtù, ma non è qui che risiede la delicatezza di Kawabata. Far calare il buio nell’attimo di maggior tensione la addolcisce o forse la enfatizza?

“Mille gru” non mi sembra un libro delicato; è un libro raffinatissimo, pieno di quelle minuzie che ritrovo, spesso, come caratteristica di alcuni scrittori giapponesi e che, evidentemente, fa parte della loro cultura, ma non può esser delicato un libro che si apre con l’immagine di una voglia deturpante sul seno di una donna - segno quasi demoniaco -, immagine che torna con ossessione più e più volte - e che in modo del tutto inaspettato mi è rimasta talmente impressa da averla trovata nella foto “Woman in bathroom” di Gregory Crewdson. Non può esser definito delicato un libro che illustra l’impossibilità di continuare a vivere, l’incapacità di agire, il perdersi fra le parole machiavelliche dei vivi ed il costante ritorno dei morti.

Il solo fatto di non assistere in prima persona agli avvenimenti più eclatanti, ma di vederli “attraverso le cortine”, non rende meno tangibili i cocci Shino sparsi presso il padiglione. “Mille gru” è un libro di grande tensione, su cui aleggia il respiro freddo della morte, in cui il lettore è lasciato in un ambiguo dubbio, come per esempio circa le vere intenzioni di Chikako o le sorti della signorina Inamura o quelle di Fumiko. Per chi non resiste alla curiosità esiste “Il disegno del piviere”, altro libro di Kawabata, per dare una risposta a questi interrogativi. Bisogna tenere a mente di nuovo, però, quella frase dell’autore: dar voce a questi scioglimenti non aggiunge significato al libro, non è questo il punto.

“Mille gru” è concluso e “Il disegno del piviere” sembra essere stato scritto con altre intenzioni da quella, un po’ semplicistica, di raccontare come sia andata a finire.


Yasunari Kawabata, “Il disegno del piviere”

Questo secondo capitolo delle vicende di Kikuji mi è piaciuto decisamente meno rispetto al suo splendido antefatto “Mille gru”, la cui lettura è imprescindibile rispetto a questa. Anzi, ci si potrebbe augurare di terminare la lettura con “Mille gru” e di non procedere. Il consiglio è spassionato.

Il libro è diviso in tre parti. La prima parte, che illustra il viaggio di nozze fra Kikuji e Yukiko, è stata per me la più coinvolgente. Il rapporto tra i due personaggi è ambiguo, crea tensione nel lettore, lo preoccupa e lo intenerisce. Si tratta, però, di una tensione che è destinata a restare castrata, non trova uno sfogo degno di giustificarla, nemmeno nelle apparenti delicatezze di Kawabata. Non esiste equivalente alla inquietante voglia sul seno di Chikako e a quello che prefigura.

La parte centrale, invece, quella delle lettere di Fumiko, è stata per me la più noiosa: l’amore per la natura somiglia qui più a una pedante lezione di toponomastica; non mi interessa sapere quanti chilometri sia largo il tale altipiano, né aiutano la mia comprensione quegli elenchi di nomi di montagne, valli, versanti, cime, vette e collinette che, anzi, rallentano e appesantiscono il discorso.

La terza parte, infine, con la vicenda della tazza Oribe, rimanda per simbologia a quella della coppa Shino in “Mille gru”. In entrambi i casi il momento catartico si materializza in un oggetto, un recipiente di ceramica, che attrae come un magnete tutta la tensione per poi rilasciarla in una sola volta. Non c’è paragone, però, tra la fine eroica della coppa Shino e quella meschina della tazza Oribe.

I cocci della prima sono tanto potenti da conficcarsi in questo secondo libro, adombrandolo.