Gallipoli: segreti e tradizioni della perla del Salento (da leggere con un calice di negramaro in mano)
La tramontana non soffia mai a Gallipoli, tranne in quel giorno di febbraio in cui sono stato lì. L’impietoso vento dal Nord non è però così gelido, sembra scaldarsi nelle acque dello Ionio. Da buon gallipolino, decido di smaltire i medaglioni di melanzane facendo il giro dell’isoletta in cui sorge il centro storico.
Senza aver mai temuto l’insinuarsi delle nuvole cariche nell’orizzonte marittimo, cammino verso Ovest. Il porto rimane indietro e la spiaggia dei gallipolini spunta davanti a me. Il mare è mosso, le onde increspate si scontrano con le alghe che giacciono sul bagnasciuga. La muratura che protegge la terraferma sembra pronta ad entrare in azione casomai le onde dovessero arrivare oltre. Ma non c’è bisogno. Penso all’estate, alle acque calme e alla gente spensierata che prende il sole meridionale. Che bello dev’essere vivere a due passi dal mare, scendere le scale e trovarsi subito sulle bianche sabbie libere.
Questo è il pensiero che mi accompagna sempre verso Ovest. Le mura di protezione si fanno più spesse, anche i blocchi di contenimento delle acque sembrano più massicci. All’improvviso si apre davanti a me una piazzetta piuttosto larga. Le sue panchine sono un invito a contemplare ancora l’orizzonte, questa volta stagliato dall’isola di Sant’Andrea e il suo maestoso faro. È martedì ma sembra domenica, niente macchine in giro, pochi esseri umani si avventurano sotto le intemperie. Mentre scopro una feconda colonia di gatti neri sotto le roccie, stimo la loro bravura nel rimanere statici davanti alla forza delle onde che adesso, in linea con il vento, sono ancora più grandi e potenti. Musica per le mie orecchie, rimango ipnotizzato dal rumore del mare. In questo attimo di completa serenità, ricordo l’unica volta in cui vidi onde così immense nel Mediterraneo. Ero a Creta, pezzetto di terra sperduto in acque più a Sud, dove il mare a volte si fa oceano. Da ragazzo abituato alle immani onde dell’Atlantico Sud, per un momento mi sento trasportato alla mia amata Isola di Santa Catarina. Insieme ai gatti, alcuni gabbiani sorvolano la mia testa e così mi avvicino al fronte Sud dell’isola. Il castello si rivela insieme al porto, le barchette dei pescatori galleggiano tranquille nelle acque protette dal vento. Sono finalmente pronto ad entrare nella roccaforte, scoprire la sala ennagonale e rimanere perplesso e felice nel sentire il suo stereo surround sound 9.0.
Fuori diluvia, i vicoli diventano piccoli ruscelli che riconducono l’acqua piovana al mare. È ora di scendere nel sottosuolo. Nei sotterranei dell’isola ci sono ben 35 frantoi ipogei – non tutti ancora ritrovati – che testimoniano il periodo in cui l’olio di Gallipoli illuminava l’Europa. Scendere in questi “inferi” che, paradossalmente, producevano luce, è un’esperienza inquietante. Sapere che lì sono morti tanti giovani ragazzi mi sconvolge. Durante la produzione dell’olio lampante, la salubrità degli ipogei scavati nella roccia scendeva a livelli disumani. Uomini e bestie convivevano per una intera stagione di lavoro sotto il suolo. Ciò perché, per mantenere costante la temperatura che rendeva l’olio di Gallipoli il migliore del mondo, l’entrata d'aria doveva essere minima. Così, la roccia assorbiva tutta l’umidità e l’olio veniva perfettamente separato dall’acqua e, quando acceso, non produceva il fastidioso fumo. L’impiegato che saliva rischiava di non riuscire a tornare giù, perché, dopo aver respirato l’aria pulita, diventava impossibile ritornare alla chiusura delle fetide grotte. Gli uomini che riuscivano a non ammalarsi di tubercolosi erano tuttavia molto ben pagati. Il denaro del massacrante lavoro permetteva loro e alle rispettive famiglie una vita tranquilla nel futuro.
Su per strada si sentono pianti, urli. Che succede? Qualcuno è morto, mi dicono. Dietro al portone, la disperazione intorno alla bara è straziante. Povero Titòru, deceduto strangolato da una polpetta! Ma è Carnevale, e Titòru non muore mai. Anche la voglia di fare il Carnevale è immortale a Gallipoli. Sono gli appassionati dei giorni delle maschere, i quali costruiscono i grandi carri allegorici, che contraddistinguono la festa gallipolina. Nonostante la mancanza di fondi, con tanta sensibilità artistica e sudore sono riusciti anche quest’anno a “fabbricare il Carnevale”.
In piazza suonano dodici volte le campane del Duomo, è finito il Carnevale. Sotto la protezione di Sant’Agata, il paese si prepara per vivere i riti della Settimana Santa. Le confraternite a breve scenderanno anche loro per strada per ribadire ancora una volta il motto che scandisce la massima tradizione di Gallipoli.