Giorgio Ghiotti: uno scrittore in bilico fra poesia e prosa
Giorgio Ghiotti, poeta e scrittore romano classe 1994, ha esordito nella narrativa ad appena diciotto anni con il libro Dio giocava a pallone (Nottetempo, 2013) e nella poesia con Estinzione dell’uomo bambino (Giulio Perrone Editore, 2015). Voce e penna di grande interesse e talento, con una prosa sempre lirica e poetica. Lo abbiamo intercettato per farci raccontare un po' di sé e del suo ultimo libro.
L’A: Ciao Giorgio, come stai vivendo questo periodo di quarantena? Cosa occupa principalmente le tue giornate?
G.G: Sto leggendo molto, o meglio sto rileggendo, che è una delle cose che preferisco. Nel frattempo sto anche scrivendo, in particolare sto lavorando ad un libro, un nuovo libro di poesie che sarebbe dovuto uscire la settimana scorsa ma, data la situazione, l’uscita è rimandata a settembre. La quarantena la sto vivendo abbastanza bene, anche grazie al mio cagnolino che mi permette di uscire per “l’ora d’aria”. Devo dire però che tutto questo ottimismo del “rinasceremo migliori” non mi convince, penso che le persone si stiano incattivendo e credo che ne usciremo peggiori, e questo mi spaventa un po'.
L’A: Parliamo del tuo ultimo libro, una raccolta di dodici racconti, “Gli occhi vuoti dei santi” (Hacca editore, 2019) a cosa si riferisce il titolo?
G.G: Il titolo non è stato il primo a cui ho pensato. Inizialmente volevo chiamare questa raccolta di racconti “Le cattività domestiche”, che mi piaceva molto come titolo. L’editrice mi disse che era molto bello, ma che potevo fare di meglio. Così una domenica andai a fare un pic-nic a villa Borghese insieme al mio compagno e a Michela Murgia, e dopo aver mangiato entrammo nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Qui vedemmo un’opera bellissima. Era una scultura di San Francesco, come una maschera. Aveva il volto scavato e gli occhi vuoti. Mi fermai a guardarla turbato e dissi a Michela: “Ma non è inquietante?”. “Certo che lo è”, rispose, “è normale, tutti i santi hanno gli occhi vuoti”. Lì ho pensato che “gli occhi vuoti dei santi” fosse un titolo bellissimo per il mio libro.
L’A: Che bella storia. Ma l’opera in questione è forse il San Francesco di Adolfo Wildt?
G.G: Ora non mi ricordo il nome. Sarebbe bellissimo se fosse lui. Sto controllando. Si è lui! Fantastico, grazie! L’opera è inquietante, bellissima.
L’A: Questa raccolta di racconti mi ha fatto pensare molto a Lessico familiare della Ginzburg. È solo una suggestione o c’è un qualche legame?
G.G: Assolutamente sì, intanto perché è la prima autrice “da grandi” che ho letto. Diciamo “per sbaglio”. Ero andato a dormire a casa di mia nonna, avrò avuto credo nove o dieci anni, e avevo con me un libro di Geronimo Stilton, mia nonna non aveva libri per l’infanzia, così mi lesse lei una storia che mi ha fregato per sempre, Valentino di Natalia Ginzburg, un libro che ha contribuito a plasmare la mia idea di amore. Quindi sì: la Ginzburg in questo romanzo c’è. Ma più che quella di “Lessico familiare” c’è quella degli ultimi romanzi, de La città e la casa e di Caro Michele, dove le famiglie smettono di avere una grammatica comune e quindi non si riescono più a ritrovare dentro le parole e viene meno l’immagine della famiglia come tribù.
L’A: I luoghi di Roma che menzioni nel libro sono Monteverde, i Colli portuensi, Trastevere con le pizzerie e il chiosco delle grattachecche, il Gazometro... che rapporto hai con Roma, quali sono i tuoi posti preferiti? E quanto ha influito sul tuo essere scrittore questa città?
G.G: Io mi sono accorto di aver sempre fatto questo gioco, cioè di estendere Monteverde a tutta la città. Mi ricordo che la prima volta che ho preso un autobus da ragazzino per andare da Monteverde al centro, non ho avuto la percezione che quello fosse il centro, ma solo una remota zona di Monteverde. Facevo un po' come Neil Armstrong sulla Luna: mettevo bandierine di Monteverde sugli altri quartieri di Roma. Quando mi sono trasferito a Milano ho cercato Monteverde anche là e non ho potuto fare a meno di scrivere di Roma in maniera più consapevole e affettuosa. Adesso invece, che sto lontano da Milano, non faccio che pensare a quanto mi manca quella città, a dispetto di Roma che invece mi sembra di portare dietro ovunque.
L’A: Forse bisogna allontanarsi da questa città per raccontarla meglio? O forse un romano non è realmente in grado di farlo? Non è un caso che i più grandi artisti (pittori, scrittori, registi) che l’hanno raccontata venivano da fuori, che ne pensi?
G.G: Sì, sicuramente, questo è vero. Penso alla linea romana di poesia dove in pochi erano romani davvero, giusto Dario Bellezza e Moravia, gli altri come Sandro Penna e Caproni non lo erano. Penso però che sia anche la capacità di Roma di aggregare e di essere una forza attrattiva per poeti e artisti, quello che Milano, nonostante sia la captale della poesia, non riesce ancora a fare. Penso che a Roma ci sia ancora spazio per fare delle cose, per esprimersi, nonostante sia molto faticoso.
L’A: Torniamo a parlare del libro. Nei racconti menzioni spesso film e registi, sei un appassionato di cinema? Nel racconto “le labbra di Penelope” emerge molto l’amore per Almodovar.
G.G: Si, con le storie di Almodovar, e anche di Özpetek, ci sono cresciuto. Mi sono rivisto e ho imparato tante cose, tante dinamiche affettive, perché l’affettività si impara, non è innata ma è culturale. L’amore è culturale. Il cinema mi piace molto, purtroppo però sono molto pigro e vado raramente al cinema, ma vedo i film in televisione. È una dinamica che mi piace, non i film che puoi scegliere tramite Sky o altri programmi, ma quelli che passano in tv. C’è come una coincidenza particolare, e nonostante le pubblicità è bello perché se arrivi fino alla fine vuol dire che ci tieni proprio a vedere quel film.
L’A: Tu sei anche poeta, pensi che sia vero quello che diceva il grande regista Tarkovskij che il cinema abbia a che fare più con la poesia che con le altre forme di espressione artistica?
G.G: Se c’è una tangenza fra cinema e poesia la vedo nella creazione di un’immagine. Quello che manda avanti il verso nella poesia e l’azione nel film è l’immagine, che è un’immagine simbolica, che suggerisce molto altro. Effettivamente non esiste poesia senza simbolo, e in questo il cinema è più vicino alla poesia che alla letteratura e al romanzo.
L’A: Ti senti più poeta o scrittore?
G.G: Non lo so, innanzitutto perché quando esce un mio libro di poesia io sto lavorando alla prosa e viceversa, e poi sono linguaggi che si tengono sempre insieme, con le dovute differenze. Quello che cerco di fare, che è il motivo per cui tengo poesia e prosa abbastanza unite, è quello di portare anche in prosa quella ritmicità che è propria della poesia, cerco di mantenere una certa musicalità anche nella prosa. Questo è dovuto anche al fatto che ho studiato per dodici anni pianoforte, e questo mi ha aiutato nel ritmo. Non è un caso che molti dei miei scrittori e poeti preferiti abbiano iniziato come musicisti. Giorgio Caproni ha iniziato a scrivere poesie perché suonava il violino, ad esempio. Credo ci sia un rapporto molto profondo fra la musica e la poesia.
L’A: Tu hai pubblicato anche una raccolta di interviste a scrittrici e poetesse italiane, dal titolo “Mesdeimoiselles. Le nuove signore della scrittura”, edito nel 2016 per i tipi di Perrone. Com’è stare dall’altro lato, cioè intervistare?
G.G: Bellissimo! Io mi sono davvero divertito nel fare quel libro, nonostante sia stato faticoso. Quando fai un’intervista devi distrarti da te stesso, e, se ti lasci andare all’ascolto, puoi davvero dire di aver preso parte a quei momenti, a quei racconti. Inoltre è stato bellissimo perché ho conosciuto scrittrici e poetesse che poi sono diventate amiche.
L’A: Qual è il segreto per una buona intervista?
G.G: Secondo me sta nel non avere un canovaccio. O meglio, avere solo un canovaccio minimo e assecondare la conversazione.
L’A: Consiglieresti ai nostri lettori tre libri?
G.G: Certo. Zucchero e catrame di Giacomo Cardaci, edito da Fandango Libri. Di poesia consiglio Tutte le poesie 1971-2017, che è la raccolta delle poesie di Biancamaria Frabotta, uscito con Mondadori. Infine suggerisco per la prosa Il cuore non si vede di Chiara Valerio, edito da Einaudi.
L’A: Grazie Giorgio, buon lavoro e in bocca al lupo per tutto!
G.G: Grazie a voi ragazzi, è stato un piacere.
Dal racconto Noi due de Gli occhi vuoti dei santi:
“A vent’anni dicevamo: siamo già vecchi, con tenerezza e soddisfazione, scherzando sul nostro preferire un film sotto le coperte alla discoteca con le tue amiche, i ventagli all’aria condizionata, una pizza a Trastevere al cinema con i miei amici. Andavamo sempre all’ultimo spettacolo, tardissimo. Che volgarità. A vent’anni era un vanto quella nostra pacatezza, quella misura, un piacere puro, innocente. Due bambini che calzano le scarpe dei genitori e godono di quella finzione.”