Hanya Yanagihara: “Una vita come tante”
Straordinaria la risonanza che ha avuto questo libro, con talvolta plateali manifestazioni di passione variamente documentate: l’istantanea delle lacrime versate al termine della lettura; il post su Instagram dove si proclama la sua incomparabile, inarrivabile bellezza; addirittura fotografie dove l’entusiasta lettore, col volume sottobraccio - il primo novello devoto, il secondo ormai breviario contemporaneo -, si aggira per chiese romane col volto romanticamente rivolto verso lontane altezze, come i santi di Guido Reni; e, mi è stato confessato, che persino lettere sono state scritte a questo libro, a lui!, dedicatario di pensieri e sentimenti altrimenti rivolti agli esseri umani.
Appassionati amici lettori - sempre loro, ancora loro! - me ne hanno parlato senza timore di frenare gli entusiasmi, perché mai?, piace a tutti!, ed io, che finito in questo flusso blu-Sellerio vedevo quella foto in bianco e nero attraente come una sirena, ho scelto di mia spontanea volontà di tuffarmi in queste acque scure e di affrontare la lunga traversata, perché la mia curiosità, che prima o poi mi sarà fatale, mi impediva, con qualcosa di simile all’invidia, di non godere anch’io delle meraviglie che agli altri spremevano il pianto fuori dagli occhi.
Ora sono sull’altra sponda, ho finito di guadare tutte le millenovantuno pagine di “Una vita come tante” e sono pronto, giudicandole da lontano - sperando che mi stiano d’ora in poi il più lontano possibile - a demolirle impietosamente dalla prima all’ultima.
Dovrò dare ragione della mia condanna, che non può non essere totale; proverò con tutto me stesso.
L’America, per noi tignosi europei, è la terra dell’abbondanza dove, si sa, tutto è più grande, dalle rape a - evidentemente - i libri. Vista, però, l’origine hawaiana di Yanagihara, mi fiorisce una domanda nella mente: si tratta forse di un caso eclatante di gigantismo insulare? Insomma, questo per dire che l’attributo più manifesto del libro è la sua mole. Non è mai un bene, tuttavia, quando le caratteristiche fisiche prevalgono su quelle interiori, nei libri.
Da un romanzo contemporaneo che mi pesa sulla mano e che mi costringe alle più zigzaganti pose per leggerlo, io sento di poter pretendere di mostrarsi ad ogni sua riga frutto del più sfolgorante talento letterario. Esigo qualcosa in cambio per il lungo tempo necessario alla lettura, reclamo un luminoso regno celeste, come il paradiso cristiano dopo la morte, a mo’ di compenso per l’atto di fede e fiducia che sono il comprarlo, l’iniziarlo, il terminarlo.
Leggere è spesso, ormai sempre più spesso, un tempo morto ogni giorno più faticoso e complicato a guadagnarsi: pur vivendo molto più a lungo, di tempo ne abbiamo sempre meno, sempre più votato, dopo gli stress lavorativi, alla facile autosedazione davanti, ad esempio, ad una di quelle interminabili serie Netflix o chi per lui. Per questo un libro non può più essere semplicemente lungo, ma deve rispondere della propria lunghezza: anche i libri hanno una responsabilità né si può essere indulgenti nei confronti delle manie di grandezza della cattiva letteratura.
Chiedendomi, arrovellandomi il cervello, perché un libro così lungo sia tanto piaciuto, mi sono risposto in questo modo: perché proprio ad una di quelle serie che vengono guardate “per rilassarsi”, confortanti nella loro ripetibilità, mediocremente intrattenenti e dallo scarso valore artistico, questo libro somiglia in modo sbalorditivo. Non mi sorprenderei se in futuro dovessimo assistere alla metamorfosi (né se si scoprisse che ad una piattaforma di streaming pensava Yanagihara mentre scriveva).
Così come dette serie sono sapientemente prodotte per piacere a una gran quantità di persone e per continuare ad attrarle il più a lungo possibile, anche “Una vita come tante” ha tutte le caratteristiche per intrattenere tanti per tanto tempo.
La vita di cui parla è quella di Jude, problematicissimo americano dal misterioso e oscuro passato - che viene argutamente taciuto per gran parte del racconto, salvo ricordare in continuazione quanto sia stato terribile, ammiccando già ai flashback con i bordi neri sullo schermo - attorno alla quale gravitano quelle dei suoi amici.
Esattamente come per le dimensioni, pensando che i pomodori smisurati siano migliori di quelli dalle proporzioni più meschine, Yanagihara pensa che la quantità dia la misura del valore. Crede, scioccamente, che la completezza nel rappresentare una vita risieda nella quantità di minimi particolari - i nomi degli amici, dei parenti degli amici, degli amici dei parenti degli amici; con chi lavora questo, con chi se la fa quella, dove va in vacanza Tizio, dove ha studiato Caio, quanti figli ha Sempronio e chi sono le madri… - che di quella vita si enumerano.
Peccando di profonda superficialità, scambiando la prolissa compilazione per ricchezza di contenuti, Yanagihara dà vita a personaggi altrettanto superficiali, nessuno escluso. Anche nella sofferenza l’autrice cede all’ingordigia degli episodi, che devono essere sovrannumerari, forse perché convinta che dolori più mediocri, più consueti, non sarebbero altrettanto perdonabili: gli uomini possono affrancarsi - dal lavoro, dalla vita - solo se hanno la giustificazione del martirio.
Feticista del mostrare, Yanagihara parla e parla, riempiendo millenovantuno pagine di quella vita e di molte altre, senza eppure dirne quasi niente se non banalità, esorcizzando l’analisi profonda degli avvenimenti, le profonde ripercussioni che essi hanno sulle esistenze, con la loro reiterata illustrazione, ancora e ancora e ancora.
D’altra parte, però, esiste uno speculare feticismo nel voler sapere, nel voler carpire i numeri e i nomi, nello sbirciare i minimi particolari esteriori delle vite degli altri.
Se si pone attenzione a come l’autrice affronta il tema dell’analisi, della cura psicologica, emerge chiaramente il grave problema dei personaggi di “Una vita come tante”, vale a dire la loro intrinseca vigliaccheria unita alla più completa incapacità, propria di intere generazioni, di avere a che fare con la malattia mentale. L’essenza di questo libro sembra essere, infatti, il perfetto disorientamento di fronte a simili problemi, e la radicata volontà di nascondere dietro al silenzio socialmente accettabile di una bella casa, di un bel completo, una sorta di tacito assenso, perpetrando l’ipocrisia emotivamente annichilita della contemporanea società occidentale.
Yanagihara ha raccontato fino allo sfinimento i meccanismi con cui vengono sfogati tali malesseri, il libro è una sequela interminabile di sevizie fisiche, alla lunga persino stucchevoli, ma è anche la dimostrazione di come moltissime persone non sappiano poi che farne di queste sofferenze, facendole rimanere mostri sterili che nessuno ha il coraggio di affrontare.
A pagina 858 c’è scritto nero su bianco il commento più imbecille a quella che viene definita «la sinistra pedanteria della psicoanalisi»: «nel corso degli anni aveva conosciuto tanti amici convinti che la loro infanzia fosse stata felice e che i loro genitori fossero stati fondamentalmente affettuosi, finché l’analisi non li aveva risvegliati, facendo loro scoprire che era vero esattamente il contrario».
Credo che, alla luce di questo pensiero che il libro non si degna di smentire, anzi, che mette in bocca ad uno dei personaggi più amabili, si possa pensare o che Yanagihara non sia mai andata in terapia o che, in caso contrario, non ci abbia capito assolutamente niente.
Ogni pagina del romanzo cerca di dimostrare come, nonostante le sofferenze indicibili - degne della più prosaica serie basata su qualche sadico personaggio, perché siamo bestie attratte anche dalla sofferenza degli altri - si possa diventare persone perbene, vale a dire socialmente accettabili. Peccato che Yanagihara, da brava americana, misuri tale successo con la quantità di amici e soldi che si hanno e col numero di eventi mondani ai quali si partecipa, o ai quali, altezzosamente, ci si rifiuta di partecipare malgrado i perenni inviti.
Nonostante tutto si diventa ricchi, molto ricchi; nonostante tutto si diventa popolari, molto popolari. Nessuno dei personaggi si preoccupa davvero di migliorare, di crescere, né d’altra parte deve essere un cruccio di Yanagihara, che racconta di individui vuoti, facoltosissimi istrioni della vita mondana, ma incapaci di prendersi le proprie responsabilità, peggio!, incapaci di accorgersi di averne.
Per quanto segnati dalle esperienze pregresse, da una certa età in poi dovrebbe subentrare in ciascuno anche il senso di responsabilità per quel che si è diventati. Ne sono profondamente convinto: diventiamo responsabili di quel che siamo. Ecco che qui si perdono i personaggi di Yanagihara, incapaci di elaborare i traumi, lasciando la propria intelligenza emotiva ad uno stadio larvale.
Anche da un punto di vista formale il libro non guadagna nessuna virtù: vi si applica il più sistematico e volgare utilizzo della seconda persona singolare e di quella plurale, non per parlare elegantemente al lettore, ma perché risulta la forma più semplice da impiegare, al posto dell’impersonale.
Credo che la facilità sia un’altra chiave per comprendere il successo del mastodontico volumaccio. Pur raccontando effettivamente di grandi dolori, “Una vita come tante” è un libro facile, facile da leggere, facile da comprendere, semplice, sempliciotto. È tanto facile quanto lo è accendere una piattaforma di streaming e chiudersi per ore infinite, una puntata dopo l’altra, con una serie.
Ho il sospetto che, nonostante la quantità prodotta (il suo libro più breve è di 448 pagine), Yanagihara non sia una scrittrice. Come può esserlo qualcuno che fa dire al protagonista: «i libri mentivano, tendevano sempre ad abbellire i fatti»?
I libri non mentono. Il miracolo della letteratura è proprio quello di mostrare la verità delle cose e delle persone attraverso il mezzo della finzione letteraria.
Se Yanagihara crede il contrario evidentemente non ha rispetto per la parola scritta. Questo suo interminabile sproloquio lo dimostra ampiamente. Non mi arrischierò per nessuna ragione al mondo a leggere gli altri ed averne conferma, però, mi sono bastate queste millenovantuno pagine enfiate d’aria, sovraccariche di inezie che niente dicono, pur dicendolo con sgraziata arroganza.