Il volto animale del potere. Il testamento dell’uro di Stéphanie Hochet.

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Immaginate un governo totalitario, un leader carismatico. Bene, il nostro secolo pullula di piccoli e meschini o grandi e boriosi dittatori. Ma se questa figura fosse un santone invasato che si crede l’iniziatore dell’era della Bestia?

Un personaggio senza nome, alter ego di Hochet stessa, ci guida in questa avventura che si svolge in un sud della Francia selvaggio e soleggiato, primordiale. La trama inizia in maniera lineare. Vincent Charnot, sindaco di Marnas, invita la scrittrice – parigina e ancora non affermata – a un festival letterario da svolgersi nella sua cittadina, ma qualcosa di misterioso sembra aleggiare nell’aria.

Il romanzo di Hochet, personalità letteraria resa celebre grazie all’amica Amelie Nothomb, inizia come una delle consuete autofiction della collega: scrittura brillante e arguta, piacevolmente caustica. I toni tuttavia cambiano progressivamente, mentre la vera natura di questo invito al festival si fa più chiara (o meglio, tinge di oscurità la luce). Il carismatico sindaco è mosso da un sogno irrazionale che è facilmente diventato ossessione condivisa nel comune che amministra, generando immediata adesione. In cosa consiste questo progetto? Precisamente in quello di assumere la “resurrezione” dell’animale prestorico citato nel titolo – l’uro – come simbolo di rinascita di una nuova era, segnata dal dialogo fra umanità e natura primigenia. Il testamento dell’uro è questo: la storia di un animale che diventa testo profetico, pagano e dogmatico per un popolo a venire. Questo, verificando un orizzonte politico caratterizzato da un’ideologia che si potrebbe definire sia passatista che progressista. Venerando un passato che non è storico, ma ancestrale, e un futuro che non è prossimo, ma utopico.

Ma in tutto ciò, a cosa serve una scrittrice? Ma a magnificare questa impresa. Il sindaco non è certo un ignorante sovranista, è un lettore avido e a modo suo ammirevole. Certamente fanatico e cieco, come probabilmente i lettori fascisti e nazisti di Nietzsche, ma animato da un’autentica fede. Infatti, non basta rapire e tenere prigioniera la giovane donna, ma persuaderla e coinvolgerla nel progetto mostrando la bellezza, la gloria e l’avanguardismo del progetto in termini culturali, politici, etici. La fascinazione avrà effetto? E questo effetto, sarà duraturo?

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“Chi non ha il suo Minotauro?” è la citazione posta in apertura del romanzo. Frase enigmatica e evocativa. Si tratta del titolo di una breve pièce di Marguerite Yourcenar. Sorta di opera allegorica in costume mitologico, la trama vede dipanarsi le vicende intrecciate di Teseo e Arianna, alle prese con Asterione, il famigerato Minotauro del labirinto cretese. L’impresa eroica della sua uccisione si rivela una farsa, dal momento che il nemico non si vede, non lo si incontra direttamente. Teseo, sopravvivendo, crede di essere uscito vittorioso dallo scontro. L’enigmatico monumento è ridotto in cenere, ma non si sa cosa è successo. Resta solo una coltre di fumo e polvere che alimenta le illusioni. La fama che consegue al supposto assassinio di questo mostro invisibile è di breve durata. Sull’isola di Naxos i due hanno uno scambio molto significativo.

Arianna: Voi non avete ucciso il Minotauro.

Teseo: Non ricordatemi quella finzione inventata dalla propaganda ateniese, questa storia imbecille in cui mi sono cacciato controvoglia. Mi sembrate troppo illuminata per credere ai mostri.

Arianna non ritratta la propria posizione, e continua “non abbiamo mai lasciato il labirinto”. Quale mostro? Quale labirinto? Qualcosa ha lasciato quegli spazi chiusi e ha iniziato a popolare un territorio aperto. Il filo rosso della liberazione sembra essere diventato un serpente che cede a una totale trance grazie alla musica insinuante di un abile incantatore.

Nel nostro romanzo questo incantatore è il sindaco, Vincent Charnot. Il labirinto è la campagna del sud della Francia dove non si fugge. Ogni strada, infatti, è identica e diversa da se stessa, falsa amica di una partenza che non può che essere ritorno. Ma il labirinto è anche un animo che è diventato sempre più diviso, non capendo dove inizia la mistificazione e dove la possibilità di un contatto più autentico con la natura e il lato animale di noi stessi. Allora torniamo all’Uro-Minotauro, attraversiamo questo territorio oscuro e viscerale, e lasciamoci catturare dallo charme di un romanzo che propone un finale sorprendente, che non vogliamo assolutamente rovinarvi.