La maladie de la mort al Teatro Argentina: cinema, teatro e l'incapacità di amare
Nel buio della notte, la telecamera del suo cellulare illumina il corpo nudo di lei, disteso sul letto. Prima inquadra le gambe, poi il ventre e infine l’occhio, che appare ciclopico, indagatore, quasi a voler scoprire il motivo di quell’algida insistenza voyeuristica. Questa una tra le più penetranti immagini che il pubblico vede proiettate sullo schermo sopra il palco del Teatro Argentina, mentre sotto vi sono gli attori che le mettono in atto. Una fusione di più livelli che consente allo spettatore di avere diversi punti di vista, per una rappresentazione che lega il cinema al teatro.
“Volevamo usare le telecamere nello spettacolo per capire come l’uomo scruti il corpo della donna” ha dichiarato la regista Katie Mitchell, che ha avuto l’ardire di portare in scena il testo di Marguerite Duras. Un racconto straziante in cui sono protagonisti un uomo, una donna ed un hotel. D’altra parte è proprio in una camera dell’albergo che i due si incontrano. Lui paga la sua presenza e le sue prestazioni sessuali, ma non è il piacere fisico l’oggetto dei suoi desideri. Ciò che l’uomo cerca è quello che non potrà mai ottenere, e che la donna non gli potrà mai dare, quel sentimento chiamato amore. Lei lo sa ed è per questo che accetta, in quella che a tratti sembra una tortura psicologica della vittima: lui sempre più consumato dall’incapacità di amare, dalla malattia della morte; lei invece sempre più consapevole della sua seducente energia, dalla malattia della vita.
In un’ora di spettacolo, non un singolo istante appare noioso. Gli occhi sono catturati dalla narrazione che procede con ritmo incalzante sullo schermo, dai repentini movimenti delle telecamere sul palco, dalla vorticosa recitazione degli attori. Il corpo di Laetitia Dosch viene inquadrato in ogni suo particolare, ma l’attrice francese non ha mai un sussulto, un tremore, restituendo come immagine quella di una donna fredda, distaccata, a tratti anche spietata nel vedere il suo cliente soffrire. Quest’ultimo interpretato da un Nick Fletcher impassibile, che mostra efficacemente l’aridità affettiva del suo personaggio. Ad accompagnare i due la voce raffinata di Jasmine Trinca, che rende la narrazione ancor più coinvolgente e seducente.
Si potrà dire che non è sempre facile seguire quanto succede sul palco (poiché si è distolti dalle immagini sullo schermo), che le fioche luci non consentono di vedere bene gli attori, che il continuo spostamento delle quinte non agevola la visione. Non si potrà tuttavia dubitare sull’efficacia di un esperimento del genere, che coniuga stili e strumenti diversi per dare allo spettatore differenti punti di vista, in quella appare come una stimolante pornografia tra cinema e teatro.
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