La ricotta: un cibo per "morti di fame"?
Vidi questo quadro per la prima volta nel 2017 a Palazzo Barberini, in occasione della mostra su Arcimboldo. L’ho ritrovato due mesi fa a Lione, con grande sorpresa, nel Museo Reale di Belle Arti.
Si tratta dei Mangiatori di ricotta di Vincenzo Campi, pittore cremonese del secondo Cinquecento, specializzato in scene di genere con un piglio spesso buffonesco. In quest’opera sono ritratti dei contadini intenti a mangiare, con ingordigia e avidità, della ricotta fresca. La scena è intrisa di una sensualità grottesca: la scollatura voluttuosa della donna e il suo sguardo provocante, il ghigno dell’uomo che le sta accanto (forse un autoritratto del pittore) e la mosca posatasi sulla forma di ricotta. E poi il volto del contadino con la berretta rossa, che ingurgita voracemente grandi bocconi della pietanza, quasi soffocato per la sua famelicità. Tutto contribuisce a condire la scena con toni grotteschi e disgustosi, fortemente derivati dalla pittura fiamminga.
Eppure c’è qualcosa che mi attrae in questo quadro, e non dipende solo dall’appetito che è in grado di suscitare quella leccornìa. Sarà forse l’invito ammiccante a prendere parte al povero banchetto? Quel gioco di sguardi perversi che non si toglie dalla mente e ti si imprime? Sta di fatto che ogni volta che mangio della ricotta penso a Vincenzo Campi e a questo dipinto.
Ma non è il solo collegamento che la mia mente compie. Non è azzardato fare un balzo cronologico di quattro secoli e proporre un confronto con un’altra opera, stavolta non su tela bensì su pellicola.
Nella campagna romana il signor Stracci (quello che si può definire comunemente un poveraccio, o un morto di fame, nomen omen) interpreta il ladrone buono in un film sulla Passione di Cristo. Ricevuto il cestino del pranzo dalla produzione, lo regala ai suoi familiari, ma poi, essendo affamato, si traveste per ottenere un secondo cestino, che viene però mangiato dal cane di un’attrice. Disperato, il malcapitato vende il cane ad una giornalista e con il denaro va dal “ricottaro” per sfamarsi. Abbuffatosi con i resti del banchetto preparato per l’Ultima cena, Stracci muore di indigestione mentre stanno girando la scena della crocifissione.
Il mediometraggio di Pasolini, realizzato nel 1963 per il film Ro.Go.Pa.G., opera corale dei registi Rossellini, Pasolini, Godard e Gregoretti, è “un piccolo poema di immagini cinematografiche”, come lo definì Moravia, opera provocatoria (accusata di vilipendio alla religione di Stato), irriverente e colta. Non è affatto azzardato ipotizzare che Pasolini si sia ispirato proprio al quadro di Campi, che sembra omaggiare nella scena sopra suggerita. D’altronde egli aveva ottime conoscenze storico-artistiche, dovute agli insegnamenti di Roberto Longhi che aveva seguito a Bologna. Come nel quadro del cremonese, anche qui il protagonista è un personaggio umile, un sottoproletario per dirla con Pasolini o un “morto de fame” come direbbe Sergio Citti (aiutante del regista), e allo stesso tempo è centrale proprio questo povero e squisito latticino.
La ricotta ha origini antichissime, forse egizie e sumere, e compare già nell’Odissea, prodotta nella grotta dei ciclopi. Abitualmente consumata da greci e romani, era in uso fino al Medioevo quando sembra scomparire, per essere reintrodotta secondo una leggenda da San Francesco in persona. Questo speciale latticino cotto due volte (da qui il nome di ri-cotta), ha un alto valore nutrizionale e un basso contenuto calorico e può essere utilizzato per molte ricette e prelibatezze.