LA STORIA DI IVO - Giù al bar - Parte nona

Una piccola storia di quartiere che meno importante sarebbe difficile immaginare. Eppure, quei tre sfaccendati al bar, forse proprio perché si lasciano andare senza troppo pensarci su, dicono delle piccole verità. Piccole ma da non buttar via.


Proprio accanto alla sua abitazione c’era un piccolo bar. Pochi avventori e due tavoli sul marciapiede. Lì ogni giorno si ritrovavano tre anziani signori che, giunti di buon mattino qualsiasi fosse la stagione e il clima, restavano quasi sempre in silenzio fino all’ora del pranzo quando tornavano alle loro case. Stavano seduti osservando quanto avveniva davanti a loro per ricavare da quei piccoli fatti delle minuscole riflessioni che, pur nate dal nulla, approdavano a volte ai grandi temi della vita, il destino, il bene e il male, la morte, tutti al di fuori del loro controllo ma tuttavia fortemente annidati nei loro pensieri inerti.

Mai un cappuccino e un cornetto. Soltanto a metà mattinata, qualche volta, una rapida entrata nel bar per un caffè al banco e poi di nuovo fuori. Il proprietario era ormai diventato un amico, si affacciava sulla porta intervenendo nelle loro conversazioni e poi subito dentro seguendo un cliente in arrivo.

Quando usciva di casa Ivo cercava di evitarli. Andava di corsa e poi non gli piaceva quel parlottio con cui si sarebbe dovuto intrattenere con loro. Sfuggiva agli sguardi con cui cercavano di catturarlo, una specie di trappola messa lì per attrarlo nelle loro slabbrate conversazioni. Li evitava non per antipatia, fastidio o altro ma soltanto per la difficoltà di entrare in sintonia con le vacuità del loro fraseggio che lo avrebbe obbligato a inventarsi un parere sui lavori di rifacimento del manto stradale che da più di un mese era sottosopra lì di fronte o, volando un po’ più in alto, sui lavori della nuova linea del metro che erano fermi ormai da molti anni. O a trovare una battuta che non fosse troppo estranea al loro “sempre in forma, eh!” o a un “ma dove corri! com’è, dicci, è una bella fica? mannaggia aho!” con tutti a ridere.

Svicolava anche ai loro più innocui “tutto bene?” o “è bello oggi!” anche se capitava a volte che uno dei tre riuscisse a fermarlo con qualche domanda a cui per un minimo di cortesia non si poteva non dare retta, come “ma dove vai così di corsa!” o, capitava anche, “scusa, fermati un attimo, dicci la tua su questa questione” ché sarebbe stata solo superbia tirare dritto senza rispondere.

In quei momenti Ivo entrava in un mondo dove gli ingredienti con cui venivano costruiti pensieri e linguaggi avevano tutti la fisionomia di un’asserzione forte del crisma dell’ovvietà. Un mondo facile in cui i “ma che dici!” sopravanzavano senza ostacoli i “non sono d’accordo e ti dico perché”.

A questa specie di armonico ensemble ognuno dei tre solisti partecipava con un suo specifico contributo, con un ripetuto assolo, con un “tutto a posto”, un “navighiamo a vista” o un “non so che dirti.” Un campionario di minuscole interlocuzioni con cui in genere si chiudevano discorsi che non si sarebbero mai potuti concludere in altro modo non essendosi mai posti un vero punto di arrivo.

Uno dei tre amici, quello del “tutto a posto”, portava la maschera dell’uomo tranquillo che non ha problemi. Forse pensava veramente di avercela fatta a gestire il suo disorientamento creandosi un’arbitraria realtà dotata di robusti confini che la rendevano impermeabile ai violenti colpi che sicuramente avevano martellato i difficili anni di una poco invidiabile vita. Oppure ingeriva in quel modo una delle pillole ricostituenti che si era da solo create per tenersi su. Un “tutto a posto!” che risuonava come un grido con cui si comandava la ritirata e si invitava a nascondersi in una casamatta dove sperare di trovare riparo dalla violenza del nemico.

Ascoltandolo, a Ivo veniva da pensare di avere forse sbagliato tutto, che rovistare senza riguardi tra le proprie viscere come lui si era sempre imposto di fare equivaleva alla improbabile scelta di chi avesse continuato a combattere malgrado fosse stata ordinata la ritirata. E che avesse ragione quel tale al bar martellando i propri discorsi con il suo salvifico intercalare riuscendo a sentirsi tranquillo per quel poco che era così riuscito a trovare nel rifugio in cui era andato a cercare riparo.

Tutto diverso era il “navighiamo a vista!” con cui l’altro compagno di tavolo pensava forse di vivere il proprio presente e il proprio futuro affidandosi al caso in un’incerta navigazione senza bussola.

Un tipo a suo modo coraggioso che, a differenza di quanto avrebbe sicuramente fatto l’altro del “tutto a posto”, non era rimasto immobile sulla banchina del porto ma aveva deciso di prendere comunque il largo anche senza gli strumenti di una navigazione sicura. Quel “navighiamo a vista”, in fondo, confortava Ivo perché rifletteva quello che era anche il suo modo di affrontare la vita andando oltre anche senza sapere cosa c’era al di là dell’orizzonte.

Diversamente da quel “non so che dirti” con cui l’ultimo dei suoi tre mancati interlocutori chiudeva ogni discorso. Un potente anestetico da autosomministrarsi, ma anche una preventiva dichiarazione di rinuncia, una pregiudiziale uscita di scena, un loquace surrogato del silenzio.

Ogni volta che quel “non so che dirti” veniva a sostituire una risposta, Ivo provava un sottile e quasi impercettibile sgomento per il desiderio di rifugiarsi nel nulla che quelle parole evocavano. Parole che esprimevano l’inconsapevole bisogno di una verità che chi avrebbe dovuto dichiarare certamente non negava limitandosi semplicemente a disinteressarsene.

Parole che inducevano Ivo a pensare di suggerire a chi le pronunciava di imbarcarsi insieme al suo amico navigatore per poter anche lui avere finalmente, al suo ritorno, qualcosa da raccontare. Poteva suggerirgli anche di avere più coraggio, di abbandonare il suo triste “non so che dirti” per un più impegnativo ma promettente “stammi a sentire”. Ché, poi, non sarebbe stato neanche così importante avere effettivamente qualcosa da dire perché giù al bar le parole non erano veramente tali ma servivano soltanto ad arrivare in qualche modo fino all’ora del pranzo. Quando i tre si sarebbero alzati indirizzando al barista un frettoloso “ciao caro, metti in conto” e, tra loro, un “ci vediamo domani” detto soltanto per poter aggiungere un ridanciano scongiuro accompagnato da un’immancabile manata al posto giusto.

FINE

Racconti estratti dal libro: L’uomo Modulare di Maurizio Buonomo

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