Marmoraro: “Amo tanto Roma che a volte me ne allontano per sentire il dolore e la gioia del ritorno”
Su via Margutta e dintorni hanno vissuto pittori come Pietro Paolo Rubens, Nicolas Poussin, Jusepe de Ribera, Gaspar van Wittel e Pablo Picasso. Lo spagnolo ha soggiornato al numero 53/b, negli Studi Patrizi. E nella parete esterna di questo palazzo si nasconde una bottega. Bisogna notarla, perché passeggiando non salta all'occhio. Ha una porta piccola, stretta, ma dentro è un mondo pieno di tesori. E non solo di marmo. Mi avvicino, ma non trovo nessuno all'interno. Noto però una persona appoggiata a una ringhiera di un ristorante sulla via. Sta fumando il sigaro, tutti lo salutano e lui ricambia cordialmente. Quasi un simbolo del luogo. Non può che essere lui.
È lei il marmoraro?
Mio padre era il marmoraro. Io sono il marmorarino (ndr, ridiamo).
Nome e cognome?
Sandro Fiorentini.
Cos'era questo locale un tempo?
Era la portineria del palazzo.
Come l’avete preso in gestione?
Venne mio padre qui nel 1969. E cominciò l’attività. Io sono arrivato nel 1985.
È accaduto subito che venisse a lavorare qui?
No, perché mi ha dato l’opportunità di studiare. Mi sono laureato.
In cosa?
Architettura. Sì, ma sarei stato un architetto fallito, perché avrei avuto bisogno di un committente che mi dava carta bianca. Ho il dono della matita e ho voluto sempre sfruttarlo.
Mi può mostrare la bottega?
Certo, andiamo.
All'ingresso ci sono delle impronte per terra. Di chi sono?
Di mio padre.
Si può dire che ha lasciato l’impronta.
Già. Esiste l’Università, fondata nel 1406. Mio padre è stato il presidente.
Sono tutte in romanesco le scritte?
Non tutte, anche se molte lo sono. Il romanesco è una lingua che va scomparendo, perciò quando le persone sentono il romanesco gli viene da ridere. Quindi faccio sorridere un po’ di gente.
E mantieni la storia di un dialetto.
Assolutamente. Vengo adesso da un ristorante che sta in Prati, Angelino, dove ci sono ancora piatti che la tradizione ha perso. Che sono la cicoria ripassata, l’arancio condito, la trippa. Mi ha fatto piacere. Certo, gli ho fatto anche qualche appunto. Perché nella cacio e pepe, il pepe lo devi mettere macinato grosso e non in polvere, te deve scrocchià sotto i denti. Lo sai che mi ha risposto: ‘C’hai ragione’.
Come le vengono in mente le scritte?
Lette, suggerite, pensate. Qualcuna è anche mia.
Anche qualche cliente che entra e gliene propone una?
Certo. I consigli sono sempre ben accetti.
Quanto costa farsene fare una?
15 euro.
Hanno tutte lo stesso prezzo?
Partono da 15 euro quelle più piccole fino ad arrivare a 50 per quelle più grandi. Sono prezzi accessibili rispetto alla zona.
Quali sono gli attrezzi principali del mestiere?
Scalpello e martello. Un artigiano si è sempre creato gli strumenti per lavorare da solo. Se ti serve uno scalpello a punta lo fai, se ti serve una gradina la fai.
Quanto si impiega per un lavoro?
Posso impiegarci mezz’ora, una giornata, dipende quello che devo fare. Cerco di farli nel miglior modo possibile: è come se li facessi per me.
Questo luogo ha tutte le caratteristiche di una bottega.
E voglio che rimanga tale. La bottega mi piace, il negozio no, perché è facile da replicare.
Cosa le dà la bottega?
L’idea di vissuto. Mi da l’idea di raccontare qualcosa. Un luogo curioso. Che mi attira. Con il negozio invece è difficile che accada, perché sono tutti uguali.
Tu cosa racconti?
Quello che ho vissuto.
Passa un signore e saluta Sandro Fiorentini: "Ciao Maestro!".
Com’è cambiata via Margutta?
È cambiata la clientela, gli amici. È cambiata la gente. Una volta il sabato camminava un signore che si faceva una passeggiata. Oggi chi passa qui è quello che si è sposato da poco con la carrozzina.
È nostalgico?
Sì, perché metterti seduto e parlare con qualcuno che ha un problema da risolvere, e tu lo risolvi, ti dava sicuramente piacere. Era più un luogo che si viveva. Ora si passa e si corre.
Qualche storia da raccontare?
L’ultima l’ho vissuta stamattina. Ho un amico che abita qui al 54, che sta da 15 anni sta con una bellissima donna. E oggi li ho accompagnati a sposarsi.
Sei l’anima del quartiere. Vivi qui?
No, in campagna.
Ma è come se ci vivessi.
Sto più qua che là! (ndr, ride) Certo, ha i suoi lati negativi, perché invece di riposarti il weekend hai il lavoro che ti aspetta in campagna.
Sopra le nostre teste noto un quadro. Chi raffigura?
Mio padre. Siamo andati tanti anni avanti insieme. Ma non so quanto riuscirò ancora a rimanere aperto. Se i nostri politici non ci aiutano, qualunque essi siano, siamo costretti a finire.
Tra i titolari di botteghe c'è però chi dice: “Quando non servirò più, chiuderò”.
Io invece dico: ‘Anche quando si fermerà, batterà sempre’. Perché significa che ho lasciato un buon profumo. Io spendo per Roma, cerco di fare una pubblicità per la Capitale. Alcune attività lo Stato le dovrebbe incentivare. Perché sono mestieri che tra 10 anni spariranno.
Tu sei bottega storica?
Volevo, ma è cambiata gestione da mio padre a me e non c’erano più i requisiti. E poi perché devo precludere alle mie figlie di vendere l’attività? (ndr, c'è un vincolo di 5 anni che il proprietario del palazzo deve rispettare se vuole affittare ad altri)
Allora gliene leggo una. Questa si addice al momento. “Pazienza, pazienza, pazienza un cazzo”.
Esatto. Ci sono anche alcune frasi pesanti qui.
Vedo su di un tavolino un oggetto rettangolare in marmo. C'è scritto sopra "smartstone".
È il mio telefono. Prima o poi ci torneremo. Strumenti meravigliosi, indispensabili, ma ne facciamo un uso eccessivo. Ormai stiamo tutti sui social. Ma che caz** vuol dire? Sono avvelenato. Perché viviamo il telefono in modo sbagliato. Ormai non parli più con nessuno, perché anche a casa stanno tutti con il telefonino.
Inizio allora a leggere le altre scritte sparse intorno. “Di mia moglie mi piace sopratutto il marito”.
Bravo, sono io.
E il Foro Romano cosa rappresenta?
Ogni scritta qui ha una sua storia. Conoscevamo il direttore di medicina legale e c’era una mattonella che avevamo tagliato, chissà per quale ragione, con un foro. Arriva lui, Ozzi, che si divertiva a disegnare, anche la gente che passava. E a mio padre venne l’idea. "Che ci faresti con questa mattonella?", gli chiese. E lui ha disegnato mio padre. "E mo è un problema titolarla", gli disse Ozzi. Lui: "E che ci vuole. Quello è il foro romano".
Poi mi indica un’altra lastra.
Quello è un cimelio. Sono tutti i personaggi che stavano in via Margutta. A distanza di 20 anni, più della metà non ci sono più. È un documento storico.
Sono personaggi noti?
Lui era il marito di una giornalista che la chiamavamo “tetta”, perché c’aveva due zinne enormi.
Leggo un'altra scritta. “Non tutti gli uomini sono stupidi, alcuni non fumano”.
Quella l’ha fatta mio padre quando ha smesso di fumare.
Livello dello stronzio?
È un minerale eh. Però il livello sale.
Mi chiede allora delle altre botteghe che abbiamo visitato.
Dove siete stati?
L’ultima è stata quella di Aldo Fefè, ma poi anche dai fratelli Mortet. È bello viverle. Anche qui ci sono queste sedute che sembrano un salottino.
È un salottino. Tu non lo sai, ma qui da 50 anni facciamo da mangiare. Il caminetto funziona. E qui all’una magnamo.
Dove cucini?
Ho un fornelletto elettrico. Basta avecce un po’ de capoccia per fare da mangiare. E un po’ di amore. E un’altra cosa essenziale: la qualità. Io pijo la carne da Annibale, a via Ripetta. Vacce, perché è una bottega unica. Due persone hanno delle carni meravigliose a Roma: Feroci alla Maddalena e Annibale a via Ripetta. Ci sono andato l’altra settimana, gli ho detto: “Ce l’hai un par de code?”. “Ce l’ho, però aspetta venerdì”. Allora mi sono ripresentato con una scritta, perché poi lunedì è il compleanno suo, dove si legge: “Non è vero che un amico si vede al momento del bisogno, si vede sempre”. Si è quasi commosso e m’ha dato due code. “Quanto Annì?”, gli ho chiesto. “Vattene”, ha detto. E mi ha dato due code di Chianina. La qualità. Oggi ci sono tornato e gli ho detto: “Grazie Annibale, perché mi fai mangiare delle cose che gli altri non mangiano”.
Ho puntato sulla qualità. Sono legato al pescivendolo di via della Croce, al fornitore di verdure che sta al mercato di Ponte d’oro. Vengono qui. Mi criticano, mi danno dei consigli. E io accetto. Perché non sono un cuoco. So uno che “domattina che me va?” e lo cucino.
Da quanto cucini qui?
Da 50 anni. Qualche anno fa c’erano due principi romani qui. Principi veri. Mangiavamo con coltello e forchetta. Stavamo gustando i gamberoni e gli dico: “A principi, er gamberone te lo devi magna con le mani. Eddaje”. Abbiamo mangiato, bevuto e via discorrendo. Poi uno di questi due principi, quasi novantenne, si alza e mi dice: “Fiorentini, grazie della splendida giornata”. Io, che non avevo capito, gli rispondo: “Principe, noi lo famo tutti i giorni”. “No, perché noi (riferito al rango) mangiavamo con i nostri artigiani, con il corniciaio, il restauratore. Noi crescevamo e loro crescevano”.
Ora ci conosciamo meno?
Siamo abituati ai supermercati. Io invece vado a comprare il pane da quello, la frutta da un altro. E si instaura un rapporto, sicuramente diverso.
Quello chi è?
Sono io. Mi ha disegnato quer fijo de na’ mignotta del medico.
Leggo la scritta: “Amo tanto Roma che a volte me ne allontano per sentire il dolore e la gioia del ritorno”.
Quella me l’ha detta un commercialista che si occupava di società in fallimento. Mi disse quella frase, se l’è messa a casa. E io l’ho fatta anche per me.
Quelle che ti piacciono quindi le tieni.
Sì.
Non ci sono citazioni.
Sono quelle che c’hai dentro. Una frase bella rimane sempre, al di là di chi l’ha detta.
Questi ritratti chi li ha fatti?
Sono di pittori che sono stati qui, hanno magari mangiato.
Un'altra su Roma. “Romano non è perfetto. Mazza però quanto gli si avvicina!”.
Una signora che sta guardando le scritte nella bottega gli dice: “Se fosse più modesto (ndr, il romano) sarebbe accettabile. E lui risponde: “Er poeta diceva: ‘Come può capì er pover’uomo l’anima del romano se c’ha il torto d’esse nato a Como, provincia de Milano’”. E poi conclude: “Si gioca, la vita è un gioco”.