Sonata n°2 Op.21 di Karol Szymanosky, un'opera che vale una vita
La Sonata n°2 Op.21 di Karol Szymanosky è una di quelle opere che valgono una vita. È una di quelle storie che, sia pure nella crudeltà che solo noi vi vogliamo ritrovare, esasperano a tal punto il presente da costringere ogni uomo a superarlo.
Eseguita a Berlino da Arthur Rubinstein portò Heinrich Neuhaus, in preda a una depressione avanzata, a scegliere di partire immediatamente per Firenze e tentarvi il suicidio. Sul biglietto d’addio, come racconta lo stesso Rubinstein[1] aveva egli scritto che quella musica, quell’esecuzione, gli avevano fatto capire una volta per tutte che mai sarebbe diventato un grande musicista. Lui che nella musica era nato, lui a cui lo stesso Osip Mandel'štam aveva dedicato nel ’25, il grande piano, in cui aveva ammesso che dentro a quel piano vi fosse una città[2].
Per fortuna, Neuhaus, che pure a Firenze si tagliò le vene di un polso, raggiunto immediatamente da Szymanosky e Rubinstein, non era riuscito ad uccidersi. Eppure, quel suo gesto, estremo quanto soltanto è sincero il gesto di un folle o di un grande artista, disperato quanto soltanto chi ama e soffre per amore, lascia un segno indelebile nella storia della musica. Così, quando pochi giorni fa all’Accademia Franz Liszt di Budapest, ho assistito all’esecuzione del preludio ventisette Op. 23 di Rachmaninov, per un attimo ho ripensato che la passione di un uomo, come la passione di Cristo, possa veramente compiersi in un atto, schiudersi in una quinta, definirsi in una pausa. A rendere poi più autentica quella situazione vi era il fatto che a premere i tasti neri e bianchi di uno Steinway newyorkese era Andrei Diev, allievo del grande maestro della scuola russa Lev Naurov, assistente dello stesso Heinrich Neuhaus.
In un attimo quella storia che avevo conosciuto un tempo, in un’altra forma, in una composizione che non aveva nulla a che vedere con quella di Szymanosky, mi appariva immediatamente più chiara. Quasi un ultimo istinto di vita, quasi un grido di sopravvivenza, tornava a scorrermi nelle vene la storia; compiendo un contrappasso pacifico verso il Maestro Neuhaus. In quel momento io sceglievo di vivere così come in un altro momento egli aveva scelto di morire.
L’esecuzione s’era compiuta che già era tempo di svuotare le tasche. Il silenzio, le pause, il rigore avevano parlato al nostro posto. E la musica, per quello che si era allora concessa, ci aveva fatto vivere altre vite, sparando il suo colpo, sordo, nei cristalli della notte.
In Rachmaninov, in quel Rachmaninov, allegro, in Do minore, ritrovavo il senso di un passato, della storia, e, infine, della vita. Mi tornava alla mente, quasi una manata sul troppo vapore accumulato, la poesia del vecchio ungherese Gyula Illyés. Ricordavo l’epilogo tragico di Coetanei,[3] quando la luce del futuro riempie la stanza con un rumore sordo. E mentre il pianista cessava la sua guerra tra le prime ottave, sentivo nel mio cuore qualcosa soffocare, ripetendo nella mente quelle parole luminose:
E dopo, in una bianca mattina, mentre fuori
cade l’ovatta del silenzio
e un cristallo di ghiaccio vibra complice
una fucilata sorda
che viene dal futuro.
Ecco schiudersi l’ignoto. Vedere lampeggiare una città nel buio. Una luce ha attraversato i cristalli della notte per insegnarci a vedere il ghiaccio vibrare nelle mani dei suoi esecutori. Per illuminare una parte di mondo. Per sparare il suo colpo, sordo, come sorda è ogni cosa che proviene dal futuro, che ancora non si comprende. Rachmaninov, noi siamo stati tuoi complici e non lo abbiamo mai saputo, coetanei per sempre di Diev e Neuhaus.