Una sensibilità riemersa. Dieci anni da "La Grande Bellezza"
“La bellezza sarà CONVULSA o non sarà.”
André Breton
“La grande bellezza” sia apre con una scritta, una riflessione sul viaggiare tratta dal romanzo di Céline, “Viaggio al termine della notte”:
“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita.”
A questo punto il cannone del gianicolo spara verso la macchina da presa (quindi, verso il pubblico) e sveglia la città. Un coro femminile intona canti celestiali al Fontanone. Il protagonista maschile del film, Jep Gambardella, non è ancora entrato in scena. La protagonista femminile, invece, sì. È Roma.
Un turista asiatico si discosta dal proprio gruppo per scattare alcune foto della splendida città vista dall’alto, ma viene colto da un malore e si accascia al suolo. Forse è morto. Non ci è dato sapere se si riprenderà.
A questa scena segue quella di un festino delirante, al ritmo della versione remix di “A far l’amore comincia tu” della Carrà. Nel corso di questo evento mondano si introducono tutta una serie di personaggi grotteschi, oscenamente imbellettati, che prendono parte a una carnevalata assordante, con tanto di donnone felliniano (Serena Grandi, nella caricatura di sé stessa) che fa gli auguri a Jep Gambardella (Toni Servillo), che compie 65 anni. È in questo mondo sottosopra che il volto del protagonista – che a un certo punto del party apparirà a testa in giù, con l’immagine capovolta – fa il suo ingresso.
Perso in questa vita mondana, Jep è un giornalista napoletano che vive nella capitale da quando aveva 26 anni. Il suo esordio giovanile nel mondo letterario è avvenuto oramai troppo tempo fa, con un romanzo intitolato “L’apparato umano”, per poi accantonare le proprie velleità di scrittore. Del fatto che egli si differenzi da chi lo attornia, però, Jep ce lo confida sin da subito, in voice over, in ralenti, uscendo dalle file del ballo di gruppo per porsi davanti alla macchina da presa e mostrarci il suo pietoso sguardo privo di maschera, da cui risulta il vero Gambardella, un uomo sensibile, un vero artista, imprigionato in un balletto onirico da cui pare impossibile sottrarsi. Ma Jep è pure un personaggio contraddittorio. Quando Ramona gli domanda se la gente lo ha deluso, lui repentinamente risponde: “Sono io che sono stato deludente.” In tanti sono ad essere curiosi di sapere il perché egli non abbia più scritto un libro, e a tutti Jep rifila, di volta in volta, scusanti di assai scarsa credibilità.
Del resto, è proprio Jep che per primo tende a sminuire se stesso e il proprio romanzo. Sa che ha più opportunità di vendere la scrittrice impegnata e assidua frequentatrice di programmi televisivi, di lui che ha tentato, in gioventù – e a quanto pare in maniera un po’ pretenziosa – di scrivere dell’uomo, dei suoi drammi e dei suoi sentimenti. Cosa che, in un certo senso, tenta di fare anche Sorrentino col suo film. Senza eccessi melodrammatici e introspettivi, il regista crea una serie di siparietti in cui si alternano svariati personaggi – anche troppi, forse – generando, attraverso innumerevoli, seducenti immagini, un vortice d’umanità che risulta a volte eccessiva, altre meravigliosamente folgorante, alternando momenti di claustrofobia, per quel che riguarda gli estenuanti festini in cui, lo spettatore, ha la sensazione di stare nel bel mezzo della scena – si pensi agli innumerevoli, narcisistici sguardi che i festaioli rivolgono in macchina – a momenti di profondissima quiete, scanditi dai passi mattinieri di un Jep che, nonostante tutto, sembra aver mantenuto la capacità di godere della bellezza delle immagini di Roma, colte alla luce dell’alba.
Perché la bellezza persiste, la si intravede, come le ragazze-immagine che ballano in uno spazio isolato, ermeticamente chiuso, nonostante le vetrate che fungono da squallide vetrine, e che le separano dalla volgarità circostante della festa, o come i due novelli fidanzatini che si baciano a casa di Romano, ma soprattutto attraverso sprazzi di cui solo Jep apparentemente riesce a godere, commuovendosi, come l’amorevole suora rincorsa nel giardino dai bambini, in una scena intrisa di serenità infantile non priva di accenni agli ultimi lavori di Terrence Malick. Nonostante ciò, la “bellezza” pare davvero qualcosa di difficilmente coglibile, nascosta com’è in “una Roma ambigua e impregnata di una pulsione mortifera. E che non è solo Roma, ma l'Italia intera. Una nazione che affonda e ristagna, proprio come il relitto della Concordia.
È una Roma immersa in una snobistica mondanità, ludica e vorace. Numerose, in questo senso, sono le ironiche e tristi riflessioni sull’arte contemporanea suggeriteci da Sorrentino. Anche l’arte non si sottrae al potere, riducendosi a mera mercificazione; una fonte di guadagno e un modo di attirare l’attenzione come un altro. Il più grande collezionista d’arte di questo “Paese di debosciati” (Lillo) pare un bambinone troppo cresciuto, un giullare un po’ cafone. Poi c’è una donna che tira testate contro un muro, vive di vibrazioni, ma non sa che cosa sono. Sino ad arrivare alla bambina che frutta un patrimonio alla sua famiglia, che vorrebbe essere trattata come i suoi coetanei, covando in realtà il desiderio di fare la veterinaria, ma che viene costretta a fare l’artista, e poco importa se piange mentre dipinge, quel che conta è il denaro.
La vera arte, “la grande bellezza”, sta altrove, come sembrano suggerire le immagine notturne girate negli interni grazie a Stefano, un giovane enigmatico nelle grazie delle principesse, che possiede le chiavi dei palazzi più prestigiosi di Roma. La bellezza della città è inaccessibile, segreta, una cosa tenuta sottochiave. I corpi marmorei dell'arte vengono illuminati in maniera fugace, affiorano dalle tenebre in cui giacciono dimenticati, mostrandosi a noi spettatori per solo pochi secondi in tutta la loro magnificenza. Volti e corpi inerti d’un tempo glorioso che, anziché di eterno, sa di morte, immerso com’è in quel silenzio sepolcrale, guastato solamente dagli intrusi passi di Jep e compagnia. L’arte e la bellezza stanno proprio lì, accanto alle feste, ma nulla hanno da spartire con quella fauna che s’agita di notte tra le piante delle villette. Ed è in uno di questi palazzi che Jep ammira “La Fornarina” di Raffaello, che mostra il seno nudo. Jep si porta una mano alla bocca e si allontana. È commosso. A una prima visione lo spettatore non può sapere perché, ma per chi ha già visto il film sa che quello è un chiaro rimando simbolico alla vera Bellezza inseguita da Jep, ovvero il suo ritorno all’Isola del Faro, il suo ritorno a Lei, la ragazza amata in gioventù e unico grande amore dello scrittore.
Nessuno pare riuscire a salvarsi. Per i più sinceri e sensibili non c’è posto. Come il figlio di Viola, Andrea, un adolescente depresso che non riesce ad adattarsi al mondo in cui vive, e si suicida. O come Romano (Carlo Verdone), il fidato amico di Jep, che nel momento in cui raggiunge un certo riconoscimento personale, prende atto dell’effimera natura del successo che Roma può effettivamente offrirgli, ben simboleggiata dalla ragazza dietro a cui Romano ha sbavato sinora, e che si vede uscire fuori dal teatrino senza neppure degnarlo d’uno sguardo, mentre il pubblico applaude l’esibizione appena conclusasi. Romano non si adatta a quel mondo di squali che è la grande città, e decide di andarsene, di far ritorno al paese natale dove vivono i suoi genitori.
Altra figura vicina a Jep, è Ramona, che sino a un certo momento dà l’impressione di riuscire a mantenere a galla lo scrittore naufragato (non a caso sguazza in piscina con un salvagente, anche se, volgarmente, dice che non usa i braccioli perché le irritano le ascelle), ma che in realtà, come tanti altri personaggi sorrentiniani, sin dal suo ingresso in scena si manifesta nella sua essenza mortifera.
Ramona danza sotto i riflettori spenti, nell’ombra; le sue forme ancora avvenenti sono un qualcosa di sfuggevole che si lascia solo intravedere nell’oscurità. È legata a un mondo che non esiste più, esibendosi in uno spogliarello raffinato, vecchio stile, che oramai non interessa più nessuno. Il padre di lei chiede a Jep di trovarle un marito, ma lei, disillusa, controbatte che un marito non lo vuole. Jep le dice che la famiglia è una bella cosa, e lei gli risponde che non è portata per le belle cose. Ramona è una bellezza che sta sfiorendo, malata, come la rosa della poesia di Blake. Non rappresenta la salvezza di Jep, e muore di una malattia misteriosa, di cui non ci è dato sapere, lasciando Jep da solo, a guardare quel mostro marino che è poi la Concordia, simbolo d’un intero Paese che sta naufragando, ma che rimanda nuovamente a quell’immersione/decadenza cara al regista, e in cui Jep si rispecchia.
C’è Fanny Ardant, anche se solo per una brevissima, intensa scena. Anch’essa una bellezza del passato; una bellezza che forse solo uno come Jep può avere il casuale privilegio di riconoscere e incontrare, per quelle strade notturne e deserte che, insonne, non fa che percorrere in solitaria. Mentre tutt’intorno a lui la bellezza sembra essersi ridotta a una mostruosa e ostentata rincorsa alla giovinezza, tramite il ricorso alla chirurgia estetica, vero e proprio credo religioso, incarnato dal chirurgo/guru Alfio Bracco (Massimo Popolizio), che riempie i suoi seguaci di botulino, silenziosamente venerato, nel salone semibuio in cui ciascuno aspetta il proprio turno come dal salumiere, e al quale si rivolge addirittura una giovane suora alla quale sudano le mani in maniera eccessiva (anche la spiritualità non ha scampo, e rimane loscamente invischiata nel mondo che la circonda). Tra le sue clienti, troviamo anche chi come regalo ha un unico grande desiderio: la fine delle guerre in medio-oriente; con Popolizio che, come un rassicurante genio della lampada, risponde sorridendo che farà il possibile a questo riguardo.
Inoltre non mancano le figure “andreottiane”, incarnazione di poteri occulti, come il vicino di casa di Jep, che si scoprirà essere Giulio moneta, uno dei dieci latitanti più ricercati del mondo. Un uomo laborioso, come lui stesso afferma, un uomo che, nonostante l’illecito, manda avanti il Paese. Non a caso, il suo confronto con Jep, che precede la sua uscita di scena ammanettato dalla polizia, avviene sulle note di una canzone d’amore di Bruno Lauzi – qui interpretata da Monica Cetti – in apparente contrasto con l’arresto, ma che ironicamente rimanda al furto, con le parole: “ti ruberò, vedrai, ci riuscirò”.
Anche il cardinale Bellucci (un magnifico Roberto Herlitzka) è una figura enigmatica. Il suo continuo eludere domande di tipo prettamente religioso, preferendo parlare di culinaria, suscita un’indubbia comicità, rimanendo inerente alla poetica del regista che persiste col legare tra loro cibo e potere; il potere religioso, in questo caso, in cui il materiale assurge a livello del spirituale. E il potere, nonostante l’innocua apparenza, lascia sempre intravedere dei tratti oscuri, non compresi del tutto, che danno adito a “voci” e leggende che si creano in mancanza di una solida verità, perché la verità è la fine del mondo, e alla domanda di Jep, riguardante il suo presunto passato di esorcista, il cardinale compie il rituale della benedizione, per poi ritrarsi nel buio della limousine e tirare le funeree tendine.
L’inaspettata morte della donna amata in gioventù da Gambardella, funge da pretesto per veicolare il protagonista verso un lento, ma inesorabile cambiamento. Sente immediatamente l’impulso di tornare a scrivere, ma qualcosa lo blocca, glielo impedisce. È la sua stessa vita che conduce, in cui egli ha smarrito sé stesso, quel che egli effettivamente è, all’infuori del suo personaggio mondano.
Questa disgregazione dell’io, questo smarrimento che lentamente si compie, lo si avverte a più riprese, come nella scena girata al Tempietto del Bramante, in cui una madre apprensiva sta cercando la sua bambina, la cui voce affiora dal basso, attraverso l’inferriata, giungendo fino a Jep, come da profondità inconsce e inesplorate, domandandogli: “Chi sei?”. Jep sta per rispondere, ma viene interrotto: “No, tu non sei nessuno...”, lasciando il protagonista stordito, incapace di trovare le parole per controbattere. Uno smarrimento esistenziale che il senso di perdita fa riemergere, e che a poco a poco si acuisce, come nelle parole di un Jep disperatamente ubriaco, che cita l’inizio del romanzo Nadja, di André Breton, con le parole: “Chi sono io?”.
Jep finisce con l’essere sempre più soggiogato dal disgusto per quel mondo di cui fa parte. Come ha avuto modo di affermare lo stesso Sorrentino: “Volevo raccontare tutto quello che c'è, non solo Roma o l'Italia. Tutti gli stati d'animo, tutte le possibili forme di gioia e disperazione, conflitto, bellezza e bruttezza. Tutte le critiche negative guardano alla superficialità del film, ma mi vanno bene anche quelle, perché il protagonista galleggia nella superficialità; l'unica sua forma di profondità è quella istintiva, di quando si è ragazzini. Nel caso di Jep, la fidanzata della gioventù.”
E questa sua profondità tenta, a poco a poco, di riemergere, evidenziata dal suono delle onde del mare che, come un leitmotiv, torna nel corso del film a richiamare a sé l’attenzione dell’artista Jep, perso ad occhi aperti nelle fantasticherie che vanno a formare le increspature del mare sul soffitto sopra il suo letto. Jep ha che fare con la decadenza di ciò che lo circonda, ma anche con quella dovuta alla sua età, la sua decadenza psico-fisica. Jep schiva la morte. Ne è sfiorato di continuo. Il suo è un rifugio onirico nel passato che ci mostra la sua simbolica immersione per non essere investito dal motoscafo, per poi riemergere ringiovanito, nelle fattezze di quando era giovane, per poi ricambiare il sorriso di Lei.
Jep comincia a sentirsi vecchio, come confida a Ramona, e sempre più nostalgico - “cosa avete contro la nostalgia?”, ci esorta a riflettere Romano, nel suo spettacolo – poiché la realtà che lo circonda non lo accontenta più come un tempo. Il suo viso intristito di fronte alla mostra fotografica all’aperto, con gli innumerevoli volti dell’artista che progressivamente invecchia, perdendo la giovinezza, esprime tutto il suo malessere, così come nella scena del bar, girata in ralenti, subito dopo aver perso Ramona. Il suo sguardo si incrocia con quello di un ragazzo, lo segue in una stanza attigua, ma in un’inquadratura successiva, al posto del ragazzo, troviamo un anziano. All’interno della stanza stanno, come anime perse, tutta una serie di persone non più giovani, che passano il proprio tempo guardando il televisore, quel tempo che scorre via, veloce, come le moto da cross che passano sullo schermo. Una di queste persone, una donna sconosciuta, afferra improvvisamente Jep per la mano, e pare imbarazzata, come in un gesto istintivo, quasi inconscio, teso a cercare un disperato contatto. Così, dopo feste e musiche assordanti, tutto pare ridursi lì, in quello spazio angusto che è uno scorcio di solitudine esistenziale. Mentre Jep si allontana, dopo essersi sottratto alla stretta della presa di mano, la voce della donna che giunge alle sue spalle gli dice, “e ora... chi si prende cura di te?”, come una voce della coscienza, matrigna e pietosa. Ramona è morta. Di fronte a lei aveva precedentemente tentato di tornare al suo ricordo più caro, di tornare con la mente sulla spiaggia notturna, con la luce del faro. Jep ha di fronte Ramona, ma il suo sguardo è vitreo, in realtà sta guardando l’amore d’un tempo.
Oltre a Ramona, sono svariate le figure in cui il protagonista tenta di specchiarsi per trovare un appoggio, per arginare il proprio smarrimento ed evitare il naufragio definitivo. C’è Dadina, la direttrice nana del giornale per cui Jep lavora, che lo consola e sembra capirlo. C’è il confronto con l’imponente giraffa, dinanzi alla quale Jep vorrebbe sparire, sostituendosi ad essa nello spettacolo di magia, come confida al prestigiatore, che gli risponde che è solo un trucco, un modo come un altro per rimanere a galla. In un’altra scena, invece, un Jep sovraesposto alla luce e chiaramente ebbro, solleva il bicchiere come per brindare in direzione della terrazza dove sta, immerso nell’oscurità, la figura misteriosa che si rivelerà essere il latitante Giulio Moneta. All’immagine segue quella di una donna che porta uno specchio avvolto nel cellophane verso la macchina da presa, specchio in cui lo spettatore può scorgere l’immagine sfocata di Jep, un uomo che sta smarrendo la sua identità.
Alla fine, dopo aver incrociato varie figure religiose, spesso solo intraviste, passeggere, Jep ha l’opportunità di conoscere una santa, suor Maria, proprio nel momento in cui ne ha maggiormente bisogno. La santa è decisamente una figura incongrua col circostante, fuori luogo, un'anziana dagli occhi profondi, gli occhi di chi ha visto troppa sofferenza, la cui presenza mette inaspettatamente a confronto la povertà con l’eccessiva opulenza.
Sul balcone gremito di fenicotteri, vistosi e sgargianti come gli assidui partecipanti dei festini, e presenze assurde, fantasmagoriche, il soffio vitalistico emesso dal volto mortifero della santa pare dissipare in Jep ogni residuo di dubbio, liberandolo da quelle presenze ingombranti per estendere il suo orizzonte verso quell’alba purpurea nel silenzio di Roma, e in cui si stagliano le creature in volo.
Jep Gambardella è pronto per fare i conti con se stesso. Jep si salva da un sentirsi sempre più vecchio e stanco, rifugiandosi in quelle “radici” simbolicamente espresse dal volto angelico dell’antico amore giovanile. È un ritorno illusorio, perseguito tramite una ritrovata sensibilità artistica che si fa consolatoria. La giovane Elisa, la vivida immagine di lei, di notte, al faro, non è molto dissimile dalla Cardinale delle fantasie di Guido in Otto e mezzo di Fellini - simulacro onirico d’una bellezza-purezza che, nonostante lo squallore circostante, rimane vivida nella mente, riuscendo ad essere raggiunta solo chiudendo gli occhi e compiendo un viaggio immaginario. Jep sale gli scalini dell’isola che portano al faro, mentre in montaggio alternato si assiste a Suor Maria. la Santa, che, come in un supplizio voluto, espiazione d’ogni peccato, sale in ginocchio la Scala Santa di Roma; nel momento in cui essa si ritrova dinanzi al volto del Cristo, Jep guarda in faccia la sua bellezza, che gli mostra il seno nudo, e, come attraverso un processo di purificazione, egli torna alle sue radici. In fondo è solo un trucco. Il romanzo può avere inizio.
La grande bellezza è un film che procede per siparietti isolati, districandosi tra il cafonal e il sublime, tra John Tavener e Bob Sinclair, tra citazioni intellettuali e battute banali, con una trama così scarnificata da far naufragare il film in un nulla che poi è la vita stessa. La più grande aspirazione di Flaubert era quella di scrivere un romanzo sul nulla. Con “La grande bellezza”, Sorrentino pare portare avanti le aspirazioni dello scrittore francese, ma in mezzo a questo nulla in cui tutti stanno e che tutti divora, qualcosa emerge. Ben oltre il chiacchiericcio insensato e sentimenti umani quali paura o dolore, vi è qualcosa che (forse) si salva, un nuovo modo di vedere le cose, come suggeriscono le immagini dei titoli di coda.
Come in un improvviso cambio di prospettiva, si passa sotto ai ponti del Tevere, forse proprio sopra a quel rimorchiatore che nella prima parte del film fischia attirando la curiosità di Jep. Un rimorchiatore dove non c'è nessuno a bordo, ma sulla cui prua sta in piedi un uomo vestito di nero e di cui, data la distanza, non riusciamo a scorgere il volto. Jep e l'uomo si guardano, finché il rimorchiatore non passa oltre, lasciando Jep di nuovo alla solitudine delle sue passeggiate.
Nei titoli di coda, torna Celine, lo scrittore caro al regista e per lui sempre fonte di ispirazione. Torna ancora con “Viaggio al termine della notte”, ma stavolta senza citazione, bensì trasponendo in immagini il finale del romanzo:
“Lontano, il rimorchiatore ha fischiato; il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un’arcata, un’altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano... Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume tutte, e la città intera, e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, tutto, che non se ne parli più.”
I personaggi ora sono tutti spariti e si respira una gran pace sulle note di “The Beatitudes” di Vladimir Martynov (suonato dal Kronos Quartet), e come il rimorchiatore sulla Senna, anche quello sul Tevere di Sorrentino pare portarsi via tutto con sé, in una catartica fuga verso una destinazione ignota.