Videogiochi e arte: uno strano connubio, tre casi particolari
Si parla sempre più spesso del rapporto fra arte e videogiochi, anche se questa prospettiva di ricerca è stata seguita dalla cosiddetta New Media Art già dagli anni Novanta, producendo opere originali e ironiche. Mentre l’arte di oggi diventa sempre più interattiva, giocando con il mondo virtuale in cui siamo stati fagocitati, il videogioco gode progressivamente di maggiore stima, smarcandosi dall’essere inteso come un oggetto di mero intrattenimento. Qui mostriamo e analizziamo una selezione di tre fortunate saghe videoludiche che nel loro DNA hanno introiettato elementi artistici, e che per questo permettono un’esperienza di gioco molto affascinante e stratificata.
Super Mario: cliché e metanarrazioni
Quando si parla di arte e videogiochi uno delle prima opere che viene in mente è Super Mario Clouds di Cory Archangel. Si tratta di una vecchia cartuccia (oramai oggetto di antiquariato 2.0) di uno dei primi titoli della serie, con un’estetica pixelata low fi, che viene modificata dall’artista, sabotata. Del percorso a ostacoli dell’eroico idraulico non resta più niente: solo le nuvole.
Giocare diventa impossibile, e l’unico elemento presente è assolutamente accessorio, mera decozione. Qual è il senso di questa operazione? Sicuramente riflettere sulle dinamiche interne all’esperienza attiva, anche se virtuale, del videogiocatore, per farla uscire “fuori” dallo schermo grazie a un bug che annulla l’aspetto avventuroso ed esalta quello estetico. Non ci resta che abbassare il joystick e contemplare.
Questo entrare nell’universo bidimensionale di Super Mario, stravolgerne le regole e sottolineare le sue modalità di funzionamento, è qualcosa di coerente con gli orizzonti di ricerca dell’arte concettuale, che alla ricerca oggettuale tende a sostituire quella metalinguistica. La fortunata saga, che conta un numero impressionante di titoli, ha un plot di base molto semplice, così come semplici e convenzionali sono i personaggi principali che si ripropongono identici in ogni episodio. Quindi si presentano pochi elementi, e ripetuti.
La ripetitività è qualcosa che segna gran parte delle produzioni artistiche del Novecento, in primis quella dell’arte minimalista, che propone come sculture oggetti in serie (spesso cubi) che non hanno nessun valore intrinseco, nessuna specificità. Dove sta l’elemento artistico? Nell’esperienze che il nostro sguardo, sempre soggettivo, compie nello spazio della fruizione.
In Super Mario la trama è assolutamente generica: ci sono un eroe e una principessa da salvare, e naturalmente c’è anche un cattivo. Attorno a questo elemento standardizzato e industriale gli sviluppatori hanno creato un mondo, ma anche giocato con il mondo esterno. Ad esempio, la serie di Paper Mario ruota tutta attorno il fatto che ogni cosa è fatta di carta e in quanto tale tutto funziona in un preciso modo, date le caratteristiche di quel materiale. Ma i nessi non si fermano all’arte concettuale e minimalista. Giocare con i medium artistici, ecco cosa hano fatto la pittura materica delle tarde opere di Tiziano, i tagli dei Concetti spaziali di Lucio Fontana, e altre innumerevoli opere che invitano il nostro occhio a insistere l’attenzione allo stesso tempo sul rappresentato e sulla rappresentazione. Si tratta, dunque, di un discorso trasversale. Mario e i suoi amici e nemici, nel loro piccolo/grande universo, ci invitano a prestare occhio a questo “gioco” fra piani, e hanno fatto la loro fortuna grazie alla simpatica semplicità con cui lo fanno.
Final Fantasy: capricci, pastiche e nostalgia.
Una saga che ha fatto la storia, e ha avuto un ruolo centrale nell’esportazione del genere GDR o RPG (role-playng-game) in Occidente. I quindici titoli che lo compongono, insieme alla miriade di altri giochi che gli orbitano attorno, contemplano tutti una narrativa più o meno avvincente e drammatica, ma il vero punto di forza di queste opere risiede nelle particolarissime atmosfere che riescono a creare, grazie soprattutto a colonne sonore mozzafiato. Infatti, queste avventure polifoniche prendono sempre piede e in eterodossi paesaggi che vanno dal fantasy alla fantascienza passando per lo steampunk e il revival medievalista. Tale suggestivo panorama architettonico e naturalistico (densissimo di citazioni delle culture più varie, con scenari da cartolina che come dei capricci realizzano delle composizioni di monumenti molto scenografiche) è lo sfondo di vicende che schematicamente vedono scontarsi nobili eroi contro i cattivi di turno, personalità a volte particolarmente riuscite.
Cosa dire del titolo della saga? Una “fantasia finale” è quella che nel 1987 secondo Hironobu Sakaguchi avrebbe rappresento il suo primo e ultimo videogioco, anticipandone (erroneamente) il fallimento, forse in modo scaramantico. Un inizio, dunque, che nasceva con un senso melanconico di disfatta. Anni e anni dopo, dal decimo capitolo in poi, questi videogiochi hanno perso il loro fulgore, e oggi abbiamo una proliferazione di opere pallide o mediocri, e la melanconia della preventiva disfatta ha lasciato spazio alla nostalgia dei grandi titoli “perduti”, come il sesto e il settimo.
Questo mito della grandezza degli antichi rimanda a una narrazione comune all’interno della letteratura artistica. Giorgio Vasari nelle sue Vite parla della decadenza degli antichi fino a segnare il trionfo della rinascita e del superamento di questi con Michelangelo, figura che emblematizza quella del “grande artista”. Questo atteggiamento ricorda quello dei creatori di Final Fantasy, che creano un’aura di epicità attorno i loro protagonisti, ma anche attorno ai loro capolavori videoludici, a costo di derive speculative. Con il trionfo di Michelangelo (e la morte di due altri grandi “geni” dell’arte, Raffaello e Leonardo) nasce il Manierismo, movimento che fra le sue poetiche contempla la ripresa di motivi della loro estetica, e la citazione ossessiva - talvolta deformante e talvolta letterale - dei linguaggi individuali.
Questo atteggiamento ricorda la tendenza tipica di tutti i titoli della saga, dal duemila in poi, di scimmiottare materiale prelevato a piene mani direttamente dai grandi classici del passato, spesso senza nessuna consapevolezza critica, tentando l’impossibile impresa di resuscitare dei morti. Il mito della grandiosità, dell’insuperabilità degli antichi, topos nell’arte neoclassica dopo quella rinascimentale, ritornerà ciclicamente in altre fasi artistiche. In effetti, il decadentismo, simbolismo pacchiano e kitsch di Final Fantasy sembra attraversare movimenti che vanno dall’Ottocento fino ai giorni nostri, dove i mélange culturali sono sempre più caotici e azzardati. E che dire delle trame? Che virano oramai alla deriva dal melodramma all’action più puro, passando per la commedia teen e momenti stereotipati tipicamente giapponesi. Precisamente in questo mix di generi, alla costante ricerca di un’identità perduta e sentita come irrecuperabile, e nella smodata fiducia verso gli artifici nell’ecletticismo, ritroviamo il carattere più contemporaneo di Final Fantasy, saga che (nonostante tutto), continua ad andare avanti, conquistandosi fette di pubblico sempre più ampie.
Shin Megami Tensei: il trionfo del postmoderno
Celebre saga di giochi di ruolo, anch’essa nipponica, ma decisamente meno nota di Final Fantasy. Il nome letteralmente si traduce con “La reincarnazione della dea”, un titolo affascinante ed evocativo, ma anche programmatico. L’aura di misterioso esoterismo, infatti, fa corpo con una narrazione apocalittica che vede sempre giochi che iniziano con fine del mondo. Dai primi e antiquatissimi nomi, passando al capolavoro Shin Megami Tensei III Nocturne, e arrivando al quinto titolo della saga (in arrivo a novembre) il plot, come un ciclo infinito di metempsicosi, ripropone sempre all’inizio dello scenario rovinoso una Tokyo posta alla fine dei tempi, dove il destino dell’umanità è sfuggito al nostro controllo. Ad abitare le scheletriche e miserande rovine della capitale, infatti, è un eterogeneo insieme di demoni, creature prelevate dai pantheon religiosi mondiali, monoteisti e politeisti, ma anche dal folklore e dalla letteratura, shakespeariana in particolare. È come se l’inconscio collettivo, costruzione psicanalitica junghiana, fosse esploso, e dell’umanità non restassero altro che queste figurazioni sospese fra natura e cultura. Infatti, il ritorno di questi idoli archetipici getta un’ombra scura sul mito illuministico del progresso e della ragione. Si evocano, invece, immaginari antropologici lontani dagli orientamenti costruttivisti che sembrano piuttosto fare da eco a quanto afferma Bruno Latour quando dice che l’uomo non è mai stato moderno.
Questi mostri (strani ibridi a ben vedere), che nel gioco bisogna combattere o convincere ad allearsi col protagonista, rappresentano nella loro bruttezza e bellezza, nel loro orrore a fascino, tutte le pulsioni del desiderio. Così come i miti raccontano meccanismi del nostro funzionamento psichico, mostrando topoi ossessivi e immagini rimosse e risorgenti nella memoria, così questa idea di inscrivere un passato remoto all’interno di un futuro distopico combatte a suon di lotte a turni e boss fight l’idea di una temporalità lineare. Si parla di un altro soggetto umano, meno sicuro della propria presunta civilizzazione, ma anche di un’altra storia, frammentata e plurale.
A livello narrativo le trame di alcuni titoli in particolare, estremamente perverse, violente e dotate tutte della possibilità di operare scelte che mutano il corso degli eventi e conseguentemente del finale, esplorano talvolta in maniera piuttosto spettacolarizzata e semplicistica questi orizzonti estetici e filosofici, limitandosi a offrire solo dei vaghi suggerimenti di questa profondità intellettuale. Giochi di nicchia, insomma, ma non per questo meno pop.
Tuttavia, non dobbiamo giudicare questa “leggerezza” come mera superficialità. Il celebre storico dell’arte Erwin Panofsky, studiando la particolare evoluzione di certe figure mitologiche, ha parlato nella sua iconologia di “pseudo-morfosi”, ovvero trasformazioni impreviste che le divinità di Cupido e Crono/Saturno hanno subito nelle varie tradizioni artistiche, dall’età classica passando per il Medioevo fino al Rinascimento. Questa evoluzione è tutt’altro che lineare, e procede in maniera discontinua fra salti, scarti e travisamenti.
L’immaginario postmoderno dell’estetica dei demoni di Shin Megami Tensei, che combina elementi iconografici canonici a suggestioni che passano dal cinema all’immaginario fumettistico fino a invenzioni totalmente arbitrarie e idiosincratiche, sembra inscriversi in questa stessa storia delle immagini, una storia estremamente vitale che unisce cultura alta e bassa, autenticità e finzione, senza alcuna soluzione di continuità.
Cosa c’è di più postmoderno che vedere Odino alleato con Krishna e Buddha realizzare una lega politeista contri gli arcangeli e Lucifero? Offrire cianfrusaglie a Dioniso o Kalì per convincerli a unirsi alla propria squadra, ascoltare Oberon e Titania battibeccare come una banale coppietta di oggi. In queste storie “pseudo” artistiche, queste rappresentazioni vivono le tensioni del nostro presente schizofrenico, una forma di realtà che ha perso l’utopia dell’identità ma non rinuncia a (ri)cercarne una, mostrando l’intreccio di razionalità e irrazionalità che plasma i nostri immaginari sempre più tecnologi ma ugualmente ancorati a tradizioni orgogliosamente rivendicate anche se sempre più ibridate, fra locale e globale. In Shin Megami Tensei tradizioni antiche e moderne, autentiche e falsate, costituendo un grandissimo melting pot, si scontrano sulle macerie di una città e una civiltà che è anche la nostra.