Virginia Woolf e Lytton Strachey, “Ti basta l’Atlantico?”
Virginia Woolf e Lytton Strachey erano amici, profondamente complici, ma non amanti vista l’omosessualità stretta di lui - sulla quale egli scherza maliziosamente, mentre lei è sempre stata più fluida -, uniti strettamente l’uno all’altra anche dalla prolifica tendenza al commento, forse un po’ snob ma assolutamente giustificabile, che dava loro diritto di scambiare ogni sorta di giudizio su qualunque cosa capitasse sotto i loro chiari occhi.
Queste lettere, estrapolate da un loro più vasto epistolario, sono spesso adorabilmente maligne e divertentissime, gloriose, ad esempio, nello stroncare quella noiosa poltiglia dell’“Ulysses” di Joyce, o nel soppesare il tedio provocato da Schnitzler; sono anche luminosamente benigne nel lodare Dostoevskij.
I due, però, non si sono scritti solo di letteratura. Ben volentieri si sono abbandonati al gusto di molti succosi pettegolezzi, di piccoli scandali, tanto da desiderare di essere ammessi alla loro amicizia per poter cogliere tutto il sapore delle velenosità su Ottoline Morrell e di tutto quanto riguarda i membri del famigerato Bloomsbury Group, una di quelle intaccature dorate che ogni tanto benedicono la spirale dell’intelligenza umana.
Sono lettere talvolta leggere tra amici ma dove ad ogni riga è manifesta l’estraneità sia di Woolf sia di Strachey al mondo mediocre che li circonda: «Per favore giurami che siamo diversi, almeno alcuni di noi», scrive lei.
In una delle lettere secondo me più belle che i due si siano scambiati (quella del 30 marzo 1921) Virginia Woolf chiede - ed in lei una volta di più mi commuove l’insicurezza del genio, l’umiltà non solo di porsi domande ma di porle ad altri, come se lei, una delle più grandi menti dell’umanità, non avesse potuto trovare da sola le risposte -, dicevo, lei chiede: «Mi sai spiegare la razza umana? Intendo questi suoi bizzarri frammenti che sono paurosamente simili a noi, e nello stesso tempo agli scimpanzé, e così maestosi e nobili con i loro graziosi scaffali di classici e di porcellane pulite e tendine a quadri e purezza che è, non capisco perché, tutta sbagliata.»
I due sono, in effetti, abilissimi osservatori. La loro grandezza, che sarà poi la grandezza inarrivabile di Woolf, è quella di saper osservare il mondo e saperlo poi comprendere e descrivere: «abbiamo visto ciò che la gente chiama vita».
Ammettendo di prendere quella spirale dell’intelligenza umana e di svolgerla in un’unica linea, Woolf vede che ad una delle sue estremità c’è uno scimpanzé, la natura bestiale, e colloca se stessa e Strachey all’estremità opposta. In mezzo, la grande e mediocre moltitudine senza direzione, con porcellane pulite e tendine a quadretti.
Questa è la loro capacità di vedere e riconoscere il mondo.
Con la scusa di legittimare i nostri comportamenti umani cercandone esempi in natura si sono fatti danni enormi e contrapposti: ora la famiglia tradizionale veniva beatificata dalla tendenza riproduttiva eterosessuale degli animali, ora il bonobo diveniva il simbolo di una furiosa emancipazione sessuale a discapito di ogni più pacata modalità; De Sade giustificava con la violenza della natura la liceità dell’omicidio, predicando che l’uomo nasce malvagio, mentre Rousseau, al contrario, ci parlava del buon selvaggio, stadio al quale era augurabile ritornare. Io vedo un grande pericolo nel voler trovare negli esempi molteplici offertici dalla natura, anzi meglio, dal comportamento animale, la giustificazione ai nostri comportamenti umani. La natura è un cappello magico dal quale possono uscire ora questi, ora quei conigli, talvolta bianchi e consolanti, è vero, ma talvolta mostruosi: in natura tutto esiste.
Checché se ne dica, noi non siamo animali, o forse meglio, siamo degli animali davvero molto particolari; se qualcuno si bea all’idea di avvicinarsi il più possibile allo scimpanzé o al bonobo prima di tutto dovrebbe studiare meglio come funziona la vita dei primati, scoprirebbe che non è magnifica come sembra; secondo: faccia pure, ma sappia che la grandezza dell’essere umano si trova al polo opposto, insieme a Virginia Woolf.
C’è però un prezzo da pagare per essere tanto lontani dall’estremità scimmiesca: nelle lettere emerge la sensazione di una profonda condizione di solitudine. La solitudine del genio, si direbbe, provoca una doppia sofferenza, sia nel sentirsi soli all’estremità dove si trova Woolf, sia nel sentirsi estranei a quella moltitudine mediana dove, però, la felicità sembra più facilmente raggiungibile: «[…] non si rendono conto di alcunché. Santo cielo, come devono essere felici!», dice Strachey, richiamando parole di Alexander Pope, il quale da Strachey era molto amato, come emerge dalla lettura.
Nella solitudine di una condizione eletta, Virginia Woolf e Lytton Strachey si sono trovati e si sono supportati scambievolmente, sebbene fra i due, al momento delle lettere, Strachey fosse quello che stava riscontrando maggior successo. È normale che ad esso Virginia Woolf si sia affidata come all’amico al quale chiedere delucidazioni sulla vita e sul mondo. Ma egli si è accorto presto di non essere in grado di rispondere, non in assoluto, ma di rispondere proprio a lei. È scomparso giovane, è vero, ed ha dato comunque risposte cinicamente ironiche, impiegando il suo scintillante talento scrittorio: «Tutto è terrificante».
Ma Strachey ha fatto un passo indietro, vedendo che Woolf era di una materia ancora più pura della sua. Rivolgendole parole che esulano dall’adulazione affettiva ma che sono, per me, il frutto di quella illuminata lungimiranza che distanzia tanto dai primati, l’ha lasciata un po’ più sola ma più magnifica: «Dilettissima creatura, dobbiamo tutti esserti assai grati».
Non si può che essere veramente grati a Virginia Woolf, colei che vedeva, per tutto quello che ci ha lasciato, comprese queste straordinarie lettere.