Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi
Il nome di Caravaggio, si sa, ha un potere calamitico e richiama a sé le grandi folle (“folla”, parola proibita di questi tempi!).
La mostra inaugurata da poco ai Musei Capitolini porta il nome dell’osannato pittore, eppure il protagonista non è lui. Il vero attore dell’esibizione, fulcro e legante, è Roberto Longhi.
Studioso fra i più grandi del Novecento, geniale storico dell’arte e grande scrittore, Longhi fu anche un fine collezionista, e ad essere esposta è una selezione della sua collezione, proveniente dalla Fondazione fiorentina che porta il suo nome. La figura di Longhi però, non può essere rinchiusa nella semplice definizione di storico o critico, egli fu uno di quegli intellettuali che stanno alle fondamenta della cultura del secolo breve, italiana e non solo.
Sono molti infatti i personaggi di spicco, intellettuali e artisti, che si sono formati seguendo le sue lezioni universitarie nella fervente Bologna degli anni Quaranta; il più celebri di tutti? Pier Paolo Pasolini. Tutta l’opera pasoliniana è forse impensabile senza gli insegnamenti longhiani, senza quella conoscenza dell’arte italiana del Rinascimento che è alla base dell’estetica dello scrittore, poeta e regista friulano. Sono proprio le parole di Pasolini a farci comprendere la caratura di questa personalità:
«Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione. Egli cominciava a balbettare dietro al maestro. La cultura che il maestro rivelava e simboleggiava si poneva come alternativa all’intera realtà fino a quel momento conosciuta».
Una totale rivelazione, un incontro fertile e scatenante.
Ma veniamo alla mostra, organizzata dalla Fondazione Longhi in occasione dei cinquanta anni dalla scomparsa del grande studioso, con la curatela di Maria Cristina Bandera, direttrice della Fondazione. La sua collezione non è una di quelle fenomenali, di quelle da capogiro per l’entità e per i nomi presenti, insomma una di quelle da grande magnate alla Jean Paul Getty, ma essa è lo specchio dei suoi interessi di studio, del suo gusto raffinato e della sua capacità di scovare e capire i quadri.
Longhi è celebre per il suo occhio infallibile, un occhio formidabile in grado di riconoscere un pittore anche dal dettaglio più minuto. “Come Monet davanti alla natura, Longhi davanti alla pittura è soltanto un occhio, un enorme occhio. E quale occhio! Dunque la storia dell’arte non riguarda quello che esiste, ma quello che non esiste ancora. Longhi esplora territori sconosciuti; e la scoperta non è soltanto nel trovare opere nuove ma nel vedere con occhi nuovi” riassume in maniera esemplare Vittorio Sgarbi. Così, grazie a questo occhio scandagliatore, Longhi riscopre pittori ormai dimenticati, sepolti sotto uno spesso strato di polvere dal tempo, ignorati per il cambiare del gusto e dei canoni estetici. Insieme ad altri studiosi nei primi decenni del Novecento egli riporta alla luce Caravaggio, all’epoca pressoché sconosciuto, dedicandogli dapprima la sua tesi di laurea e in seguito anni di studio, culminati nella mitica mostra di Milano nel 1951 (la più grande mai realizzata su questo artista). Longhi acquistò anche un suo dipinto, quel Ragazzo morso da un ramarro – di cui ne esiste un’altra versione conservata alla National Gallery di Londra – della cui autografia ancora si discute.
Il bellissimo ragazzo colto nel momento del dolore dopo essere stato morso da un rettile (un ramarro o una lucertola), è il protagonista dell’esibizione, nonché l’unico dipinto di Caravaggio. Le restanti opere sono coeve o leggermente successive a quelle del Merisi, e mostrano l’incredibile influenza che ebbe il pittore milanese su tutta la pittura europea della prima metà del Seicento. Pittori fiamminghi, olandesi, francesi, spagnoli, napoletani, emiliani etc., tutti furono affascinati e stravolti da questo linguaggio totalmente nuovo e moderno. La selezione dei quadri esposti è di grande livello qualitativo: la serie dei cinque apostoli di Jusepe de Ribera, opera giovanile dello spagnolo (fra i più grandi seguaci di Caravaggio), la Negazione di Pietro che sembra una scena da osteria dove si gioca a dadi del raffinatissimo francese Valentin, i bagliori di luce accecante dell’olandese Mathias Stomer e i pastori cenciosi del misterioso Maestro dell’annuncio ai pastori (pittore attivo a Napoli a metà del Seicento di cui non si conosce ancora l’identità).
Le sale sono poche e piccole, ma difficilmente si uscirà dalla mostra prima che la lancetta lunga abbia fatto almeno un giro di orologio.
Uscito dal museo guardo il Marco Aurelio al centro della piazza del Campidoglio. Penso alla scena del film Nostalghìa di Tarkovskij, dove il folle Domenico sale sulla statua equestre e pronuncia il suo discorso alla folla.
“Il male vero del nostro tempo è che non ci sono più i grandi maestri
La strada del nostro cuore è coperta d’ombra
Bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili”
Non ci sono più i grandi maestri. Roberto Longhi lo è stato, un grandissimo maestro, e se riusciamo ad ascoltare la sua voce, forse, possiamo ancora imparare qualcosa.