Febbre di Jonathan Bazzi, una dedica ai bambini invisibili
Febbretta, febbricola. Sono tanti gli appellativi di questo sintomo, spia di un virus (l’Hiv) che, a sua volta, si rivela indice di un male più grande, più generalizzato e pervasivo. Dove inizia la malattia? Dove inizia il disagio psicologico? In quale misura intendere l’una e separare l‘altro. La sofferenza, rimosso della coscienza, si impone progressivamente con sempre maggiore forza. Febbre di Jonathan Bazzi è questo emergere di un male multi stratificato, in un processo di accettazione lungo e difficoltoso. È un romanzo che senza essere cupo e scuro riesce a trasmettere una forte sensazione di negatività, affermata e negata, ritrattata, poche pagine dopo per lasciare spazio a slanci di espressioni vitaliste.
L’estetica queer e anni Novanta che caratterizza questo romanzo, fatto di isterismi e momenti cerebrali ed edonistici, non può che far venire in mente i lavori cinematografici di Xavier Dolan. Un medesimo gusto per l’eccesso, che per il regista si traduce in una ricerca modaiola e drammatica, nel caso di Bazzi si risolve in qualcosa di più intimo e personale. Ogni frase sembra essere una dichiarazione di fedeltà a una storia segretamente vissuta, e poi pubblicamente diffusa. Una storia di ostinazione e caparbietà, un gigantesco monumento, documento vivissimo descritto analiticamente nei minimi dettagli, alla sua Rozzano amata/odiata, luogo/non-luogo dove è vissuto e cresciuto prima di trasferirsi a Milano. L’ambivalenza di questo sentimento per questa periferia, anonima e personalizzata al contempo, si intreccia con la forza del legame familiare che lo unisce a una moltitudine di nonni e zie, e al complesso rapporto con le figure genitoriali. Febbre è una parabola di vita vissuta che ci conduce fino alla vita attuale dell’autore, un’opera che insegue un’ideale di aderenza assoluta fra arte e vita. Infatti, parlare della scoperta di essere positivo all’Hiv, attraverso la suspense contenuta nella prima metà del libro, è un modo per rintracciare, nel suo passato come nel suo presente, tutta una serie di eventi interconnessi al significato che tale diagnosi assume progressivamente, definendo un contesto corale in cui può iniziare il percorso della sua accettazione, del suo superamento impossibile.
Lo stile con cui è scritto questo romanzo, che rientra nel genere di formazione, fatto di crescita interiore e piccoli/grandi traumi, è qualcosa che si nota immediatamente, o meglio si percepisce la sua assenza. Parole e costrutti sintattici scialbi, a volte logori e banali e volta climatici, diretti, di impatto. Si potrebbe definirla una scrittura paratattica, fatta di periodi brevi, secchi, tronchi. Ogni tanto, come si affermava, il ritmo si fa più enfatico e sentimentale, in certi momenti giungendo a ricercati picchi di patetismo, ma l’andamento della narrazione resta sempre discontinuo. Tautologici sono i titoli che riprendono la frase di inizio capitolo. Un’insistenza ossessiva e stonata che rimanda, come un eco disturbato e lontano, al tema di un male sempre inafferrabile eppure sempre presente. Vicinissimo e lontanissimo, assordante e silenzioso. Un altro aspetto da sottolineare è la scelta di alternare un capitolo riferito alla dimensione adulta di Bazzi e uno a quella di passaggio fra infanzia e adolescenza. Una scelta particolare, che sottolinea la difficoltà a inquadrare, anche tramite la scrittura, l’unitarietà di un soggetto che si vuole affermare come complesso, non inquadrabile in un'unica prospettiva. Da amare o odiare, la ricerca di un’empatia forzata sembra essere contenuta, neanche troppo velatemene, dietro continue confessioni apparentemente fatte senza filtri e a cuore aperto.
Leggere questo romanzo mi ha fatto pensare ai diari fotografici di Nan Goldin, storie in immagini rese con un forte senso di cura, di fedeltà per il soggetto umano. La fotografia immortala amici, spesso personalità conducenti vite borderline, persone spesso affette da Hiv come Bazzi, con un affetto commovente, sincero. La fotografia si fa veramente pratica mondana e relazionale per dimenticare la sua dimensione più astratta e freddamente documentaria. Siamo tuttavia nell’America degli anni Ottanta, in un contesto radicalmente diverso. Come mostra efficacemente il film di Robin Campillo 120 battuti al minuto (2017), ambientato in Francia, sappiamo del difficoltoso processo di riconoscimento dell’Hiv da parte della cultura occidentale negli anni Ottanta e Novanta, da parte delle istituzioni e dei circuiti comunicativi. Oggi non è più così, la malattia ha acquisito una sua dignità e un suo riconoscimento ufficiale. Affermo questo, tuttavia, senza sostenere che la discriminazione oggi non esiste più, tutt’altro, solo che essa si esprime diversamente.
Il romanzo di Bazzi parla di questo, ma sarebbe semplicemente datato parlare di un tema come l’Hiv che ha prodotto già una sua letteratura e una sua arte negli anni Novanta. Sto pensando all’opera di Robert Gober, Paul Mccarthy, Mike Kelley, alla loro estetica depressiva e malata, autoindulgente e compiacente. In fondo, credo che questo romanzo sia una presa di consapevolezza rispetto il potere della mente, al potere, pervasivo e risorgente, dei disturbi psicosomatici ad essa associati. Ma ancora di più – e qui risiede la sua attualità – al potere implicato nel riconoscimento assertivo di un’identità che comunque, nonostante le difficoltà, si vuole affermare, quasi sbandierare, attraverso una modalità che rimanda molto alla resa comunicativa del mondo dei social network. Questo, sfruttando certi meccanismi, certi codici del linguaggio che inconsciamente conosciamo bene (come la logica della spettacolarizzazione evidente in molti video di celebri youtuber), per ottenere il grande successo che stiamo vedendo, e che continuerà a ottenere Jonathan Bazzi. Che i bambini invisibili, a cui l’autore dedica il romanzo, siano più presenti e reali di quanto si immagini? Il mondo virtuale potrebbe essere congeniale a questi fantasmi dell’infanzia.