Distanziati dal fiume di denaro, in Uomo senza meta di Arne Lygre
Siamo sospesi. Non nell’aria né nel tempo, ma a teatro. Almeno questa è l’ultima decisione del Governo. E lo spettacolo Uomo senza meta di Arne Lygre, per la regia di Giacomo Bisordi, è riuscito appena ad andare in scena. Un attimo prima che gli effetti della pandemia bloccassero di nuovo il palcoscenico. E restano sospese anche le dita prima di battere sulla tastiera, ricordando quanto visto in scena qualche giorno fa. Le domande sono: cosa pensavano gli attori quando davanti a loro si sono trovati posti vuoti con scritto “non agibile”? Quale sentimento e sensazione li ha animati?
Se ce n’è uno in particolare che pervade questo spettacolo è l’odio. In punto di morte, il protagonista non è più ben visto né dall’ex moglie, che non incontra da oltre 16 anni, né dalla figlia, che non aveva mai conosciuto prima, e ormai neanche dal fratello, che pur l’ha seguito lungo tutta la sua vita. Pietro è il nome del morente, ed è l’unico che sapremo fino alla fine, come se degli altri non fosse importante conoscere l’identità. Ma c’è anche un valore simbolico dietro questa scelta. Pietro viene dal greco e significa roccia. La stessa su cui il protagonista ha costruito la sua fortuna in gioventù. Ricco e potente, decide di fondare una nuova città su un fiordo, su quella pietra scoscesa divisa da una linea di mare. “La mia terra non è in vendita”, gli risponde però un uomo che vive sul posto. Ma botte, minacce e violenze hanno la meglio. L’impero di Pietro cresce, tanto quanto l’aridità del suo animo. Uno spirito metallico e freddo, reso con una scena grigia e spoglia. È nudo anche lui di fronte alla morte, non ha più nulla da chiedere, se non un incontro con gli affetti perduti. Arriva prima l’ex moglie, chiamata dal fratello. Il rapporto tra i due è logoro, non sono riusciti a mettere su famiglia, quella che lei avrebbe tanto voluto ma che Pietro non è riuscito a darle. Lui, però, una figlia l’ha avuta, e da un’altra donna. L’ex moglie non lo sa e quando vede la giovane il suo odio verso Pietro non può che accrescere. Ma la figlia, anche lei, non prova nessun sentimento per quel padre che non aveva mai visto. Non sente nulla per quell’uomo che prima dell’incontro le ha chiesto di mettersi una parrucca con i capelli lunghi. Pietro è abituato a plasmare la realtà come vuole, ma nei rapporti non ci riesce. Da parte degli altri non c’è nessuna manifestazione d’affetto quando la vita abbandona il suo corpo. Anche il fratello cerca di dimenticarlo, iniziando a regalare i suoi oggetti. E tra le persone in fila per prendere qualcosa compare anche la sorella. Di Pietro non le importa nulla, è lì per cercare qualcosa: che sia un lavoro, una proprietà o dei soldi. Il denaro scolorisce i rapporti, li fa diventare semplice merce da scambio. Non rimangono che degli scatoloni sulla scena. Uno è per l’ex moglie, un altro è per il fratello e l’ultimo è per la figlia. Dentro ci sono i loro vestiti e non quelli che indossavano per Pietro. Li mettono e ritornano alle loro vite. Misere, ma almeno non comprate.
Divide non solo i protagonisti ma anche il pubblico il testo del drammaturgo norvegese Arne Lygre. Tra i commenti di chi è presente in sala c’è chi apprezza e chi invece non condivide tutte le scelte. Sicuramente è uno spettacolo che cerca di catturare l’attenzione, di accecare e di mostrare tutti gli effetti del denaro. Come quando nell’ultima scena cala un muro d’oro che separa i tre attori rimasti sul palco dal resto della scena. Acceca quella parete luccicante, ma allo stesso tempo affascina. E con questo effetto il regista sembra volerci dire che troppo spesso ci lasciamo prendere dall’ossessione per i nostri oggetti, per la nostra carriera e per i nostri piani futuri, dimenticandoci tuttavia degli altri. Come succede a Pietro, che ha costruito una metropoli, ma poi la sua città di relazioni è invisibile, abbandonata. Ha smesso di costruirla ed è finita per crollare.
E allora anche quel fiordo dove vivono rappresenta questo allontanamento, con l’acqua che passa in mezzo e divide pian piano le loro vite. Separate, più del metro a cui ora siamo ormai abituati. Un distanziamento sociale che c’era già, ma di cui non ce n’eravamo accorti.