Marina Cvetaeva, “Le notti fiorentine”
Bisogna provare ad immaginare il dipinto “Amor sacro e Amor profano” di Tiziano, conservato alla Galleria Borghese di Roma (ancor meglio sarebbe visitare la Galleria ed averlo proprio di fronte agli occhi). Applicando un’esagerata semplificazione, le due Veneri potrebbero essere la rappresentazione dei due volti canonici dell’amore: quello sacro, appunto, celeste, e quello profano, terreno.
Anche in queste pagine l’amore sembra avere due volti distinti e contrapposti, sebbene Marina Cvetaeva non abbia niente di canonico e quindi, necessariamente, la sua dicotomia non possa dividersi fra sacro e profano: l’amore bicefalo dell’autrice vede contrapporsi, piuttosto, Amor tenero e Amor tiranno.
«[…] tutta la divina scala, da: Mio respiro! a - Non respirare!…» scrive Cvetaeva a proposito di Venere, in questi versi che Serena Vitale pone, con sagacia, in esergo alla sua magnifica introduzione al libro.
Si tratta di nove lettere - la decima è trattenuta -, «un’unica lettera di risposta, maschile, e una postfazione…», assemblate da Cvetaeva a comporre quello che sua figlia definì un racconto, che ella descrisse come «una cosa integra, scritta dalla vita…» e che a me pare quasi un breve trattato sull’amore. Il maschile in questione è Abram Višnjak, ma, in fin dei conti, non sembra importante determinare chi sia: Cvetaeva non lo nomina mai, l’interlocutore resta un indeterminato «caro», il cui io soccombe al cospetto di quello enorme di lei, quasi Cvetaeva fosse una montagna, anzi, la montagna del Purgatorio che svetta scura dal mare e adombra il guscio di noce di Višnjak. La montagna impone una disciplina rigidissima al futuro naufrago (che forse vorrebbe non essere mai entrato in acqua), pretende e dice «voglio», il suo è il regno imperante del «Non respirare!»
Cvetaeva è la lingua di un’enorme tigre, così ruvida da spolpare le ossa del suo amore, lasciandone niente e pretendendo più di quando sia umanamente possibile donare: il suo amore è il suo cibo e le è necessario come la carne alla tigre. Ma lei dà più di quanto sia mai stato dato, è questo che impone l’estremo sacrificio! Lei dà, lei dona, non chiede niente ma si aspetta la vita le ossa le vene. Il dare di Cvetaeva diviene, paradossalmente, una sublime forma di egoismo: “What you are regarding as a gift is a problem for you to solve” (ora il suggerimento è quello di una visita alla GNAM di Roma).
Le parole della poetessa imprimono ad Amore quella forza di cui si vocifera ma di cui raramente siamo testimoni, lo trasfigurano e gli mettono ali nere, lo ingigantiscono, gli ordinano di scorticare l’oggetto del desiderio e di frizionarlo con l’aceto.
Ugualmente consapevole ed ignara, Cvetaeva riconosce al proprio amore l’unicità del come, sottolineandone un valore qualitativo e non quantitativo. Forse resa umile dalla circostanza sentimentale, Cvetaeva dice di amare «così» e tace la parola bene - amare bene - ma non riesce a lasciare inespressa questa idea che si manifesta senza reticenze fra le righe: lei ama correttamente, non c’è amore giusto senza l’annientamento dell’altro, amare diversamente sarebbe amare in modo castrato. Così almeno sembra essere questo amore, cieco davanti alla forza della propria pretesa.
Cvetaeva vede solo il «Mio respiro!», ha davanti agli occhi solo tutte le tenerezze di mani baciate e di contemplazione dell’amato dormiente. Queste pagine sono sì ricolme di simili tenerezze, ma a suon di «l’amore, innanzitutto» Cvetaeva si copre gli occhi con le proprie mani e lascia passare solo la luce dei frutti più dolci, anzi, cambia in frutto ogni colpo di frusta. Eppure, le carezze e i baci ci sono davvero, sono dolcissimi, non è un inganno, Cvetaeva ci convince sul serio del fatto che lei ami meglio di chiunque altro.
Ma l’amore di Cvetaeva è un mostro che non cessa di germinare: manca una testa, finora rimasta celata, alla creatura tricefala: il dolore.
Del dolore Cvetaeva fa una vocazione e, non soddisfatta di provarlo e professarlo, ancora una volta dittatrice, lo impone. Per lei calza a pennello quella frase che il padre di Fleabag dice alla figlia: «I think you know how to love better than any of us. That’s why you find it all so painful». Višnjak è annientato, è solo un omuncolo che Cvetaeva ci mostra, nella sua meschinità, con quell’unica risposta maschile quasi a conclusione del libro. L’educazione amorosa di questo insulso amante deve necessariamente passare attraverso il dolore poiché esso è l’unico insegnante possibile per il «giusto, felice e diretto, a posto, conforme all’ordine e in pace con dio e con il mondo», come direbbe Thomas Mann, uno di quelli che non hanno letto il Don Carlos o che non amano Beethoven.
Forse però, visto l’epilogo di questa relazione e cedendo ad un certo cinismo, bisognerebbe invece dire che il dolore sarebbe l’insegnante auspicabile, ma che mai terrà una lezione, a quelli come Višnjak. La vita, che per certi grandi spiriti, come quello di Cvetaeva, combacia con l’amore, è una «violentatrice d’anime» particolarmente solerte con chi soggiace a questa sovrapposizione; sembra essere invece più indulgente o semplicemente più distratta verso chi non ama Beethoven.