Mario Cipriano e le fotografie che non potrete mai indovinare
Sfogliando le foto sul profilo Instagram di Mario Cipriano, la prima domanda che viene in mente è: “Dove saranno state scattate?”. Squarci nell’asfalto, cactus dalle forme aliene, geometrie da fantascienza: scatti che sembrano provenire da universi paralleli. “È un continuo sbirciare in altri mondi”, spiega Mario. Ma la fotografia non è l’unico modo attraverso cui esprime la sua arte.
Qual è il tuo ultimo progetto?
Al Macro di via Nizza, ad aprile, ho presentato Light Sounds Light, in cui c’è molta ricerca metafotografica. Una fotografia che cerca di capire se stessa e mentre cerca di capirsi lancia anche un messaggio nell’oggettività.
Fai sentire quello che registri durante lo scatto?
Sì. Ho creato una macchina ibrida. Alla mia Leica M6 a pellicola ho montato sopra un registratore vocale digitale. Registro 5 secondi prima e 5 secondi dopo lo scatto. E poi lo monto così: 5 secondi di solo audio, a schermo nero, poi si sente lo scatto della macchina e in quel momento si vede la foto. Alla base c’è l’intento di mettere insieme la visione soggettiva e oggettiva. Perché all’inizio, chi ascolta, ha solo un percezione soggettiva, attraverso il suono, e inizia a immaginare a cosa possa corrispondere quel suono. E mentre si crea questa immagine soggettiva del suono, subito dopo appare l’immagine oggettiva: ovvero la foto scattata. Che in alcuni casi non corrisponde.
In quali casi?
Ad esempio, una volta ho scattato all’interno dell’auto, mentre avevo la radio accesa. Quindi i suoni che si sentono non corrispondono all’immagine che vedi.
Ti piace disattendere le aspettative?
Anche. È un gioco. Ho chiamato questa tecnica “raccordo addizione mediale”. E poi sto lavorando a un’altra idea.
Quale?
Si chiama Frameless frames. È un progetto fotografico che ragiona sulla potenza del contesto e sulla decontestualizzazione. Situazioni al limite del reale, assurde, però non preparate. Che fotografo quando scendo di casa. Sono foto che ti fanno porre delle domande: “Dove è stata scattata? È reale?”. Ma vengono presentate senza didascalia. Ti fanno creare queste domande, ma non danno risposta.
La foto con scritta “hotel” mi ha colpito molto, sembra una ferita nell’asfalto. Fa parte del progetto?
Sì. L’ho scattata a T****, mi ricordava molto Stranger Things come colori. Sai, gli specchi sono i giochi preferiti dei fotografi. Diciamo che è una foto nella foto nella realtà. È come entrare in un’altra dimensione. E poi, se vogliamo andare a vedere, non c’è scritto “hotel”, ma “letoh”.
Varie interpretazioni quindi.
Creare ambiguità, togliere certezze piuttosto che darle. Confondere chi sta guardando: non dare punti di riferimento ma portare chi guarda a porsi domande. Questo è lo spirito della mia fotografia.
La fotografia della porta da calcio dove l’hai scattata?
Quella è la foto di cui mi hanno chiesto più persone dove fosse stata scattata. Secondo te?
Forse l’hai scattata dall’appartamento in cui abitavi.
No, no. È proprio sopra il centrocampo.
Forse non è reale. È un fotomontaggio.
No, no (ndr, ride). È un campo vero, stavano anche giocando. Te lo dico, ero a C****, sopra una ******.
Incredibile. Ma non c’è il rischio che uno si scoraggi se non metti nelle didascalie dove sono state scattate?
Ti devi abbandonare alle domande. Naturalmente è una scelta anche provocatoria.
Guarda questa.
È una delle mie preferite. Mi piace l’analogia che c’è tra i vetri degli occhiali e delle bottiglie. Se tu lo guardi, non riesci a vedere gli occhi.
Quando si dice “occhiali come fondi di bottiglia”.
Esatto. Anche questa è assurda: una signora, a petto nudo, davanti a un Canyon.
America?
No, no. Il continente è Africa. E poi guarda questa.
Qui, in Italia, li conosciamo. Ma quando ho fatto vedere questa fotografia ad alcuni miei amici stranieri mi hanno chiesto: “Ma cosa stava facendo, un rito satanico?!” (nrd, ridiamo). Dipende molto dalla cultura di riferimento. C’è anche questa foto che mi piace molto.
Ci sono questi due uomini fermi, immobili (perché la fotografia, nonostante sia ferma, fa capire se uno è immobile o in movimento) e il cactus stranissimo. Mi sapresti dire dove è stata scattata?
Per me, potrebbe essere anche un altro pianeta.
(Ride).
Una che mi ricordo di aver visto tra le foto del tuo profilo Instagram è quella di una persona con gli occhi sgranati.
Si chiama Antonio Mandarino. Vive a Marcianise, Caserta, in un capanno ai margini della società. Dipinge su portelli di frigo, laminati, e scrive poesie erotiche. La curiosità è che tutti a Caserta hanno un suo quadro a casa. Si caratterizza per i colori molto accesi. Il tratto non è bello, però è surreale.
Anche questa foto sembra molto surreale. L’hai scattata a Torino? In occasione di Luci d’Artista?
Ti racconto. La persona che sta camminando è un mio caro amico, che mi ha sempre spinto ad aprire la testa, a far esplodere la mia arte, a non avere avere mai limiti. E nella foto, stavolta, esplode la testa a lui. Penso che la fotografia sia un modo attraverso cui la mente parli con se stessa.
Ti faccio vedere un’altra foto.
Ora che la rivedo, è come sbirciare in un’altra realtà. Questa si capisce dov’è stata scattata. Ero a una mostra di fotografia spaziale a Londra. In sottofondo, la colonna sonora di Brian Eno. Atmosfera unica.
Tra quelle che hai scattato, qual è la foto che preferisci?
Ero a Milano. Fermo al semaforo c’era un tram affittato da Chanel, tutto avvolto da pellicola pubblicitaria. Dentro, c’erano persone che camminavano. Io mi avvicino, strappo un pezzetto di pellicola dalla finestra e guardo dentro. A bordo c’era una modella che si stava truccando, seduta di fronte a una serie di specchi. Prima che scattasse il verde, metto l’obiettivo in questo buco che avevo creato, e scatto.
Lei se n’è accorta?
No, no.
È come se tu fossi entrato in un altro mondo.
Sì. Un po’ come mi sono sentito sempre: mai pienamente appartenente a qualche gruppo, un outsider. Un po’ come tutti i fotografi, che non si vedono mai nelle foto, perché sono sempre dietro la macchina.
Anche questa del bambino sopra una griglia geometrica suscita domande. Dove l’hai scattata?
E***, nel 201*. Te l’ho svelato, ma non te l’avrei dovuto dire, perché fa sempre parte di quel progetto. C’è anche estetica pura essendo una fotografia, quindi una ricerca della geometria. Vedi, c’è questo cerchio con all’interno un altro, sembra un po’ un occhio. C’è molto simbolismo.
Li cerchi (i simboli)?
Più che altro li trovo. Me ne accorgo quando rivedo le foto e noto che il mio occhio ha cercato quelle geometrie. È memoria muscolare. Io scatto 2-3 foto al giorno da quando avevo 6 anni.
E quando non fotografi?
Non è mai passato un singolo giorno. Che sia con il telefono, la macchina a pellicola o digitale: ho sempre fotografato.
E in questo periodo?
Sto realizzando un progetto che si chiama Fake flowers in Bloom. All’inizio della pandemia, mi sono trovato qui a Roma con macchina fotografica, rullini e camera oscura. Il lockdown non vuole dire blackout. E per questo ho iniziato a fotografare la realtà che mi circonda.
Da dove deriva il nome del progetto?
Quando da piccolo guardavo i fiori in tv non riuscivo mai a capire se fossero veri o finti. Ora siamo noi a essere passati dall’altra parte dello specchio. Fuori è primavera, volevamo sbocciare, ma non ce l’abbiamo fatta: come se fossimo dei fiori finti.
La macchina fotografica ti fa sempre compagnia, e compare molto spesso nelle tue foto.
Per me è un puro oggetto di magia. Resterò sempre un bambino di fronte a uno strumento che mi permette di fermare un pezzo di realtà e tenerlo per me. È un superpotere.
Quali fotografi segui?
La scuola scandinava: Anders Petersen, Ed Van der Elsken, Christer Stromhölm, Sune Jonsson, Kenneth Gustavsson. Ho poi intervistato Ciro Battiloro per il progetto Sanità: stupendo.
Tu disegni anche. E molto bene.
Fotografo ciò che non potrei disegnare o descrivere a parole e disegno, tirando fuori dal nulla, ciò che non potrei fotografare. Dove finisce una inizia l’altra. Cerco di condividere e comunicare il più possibile. I disegni sono uno svuota testa, quasi una terapia.
Perché riempi tutti gli spazi?
C’è questo senso dell’horror vacui. La paura di lasciare qualcosa vuoto. È anche un modo di rilassarmi, di scacciare via l’ansia. Ho fatto tavole anche di tre metri. Senza lasciare neanche uno spazio vuoto.
Come nasce il disegno con le ombre dei cani?
È un’illustrazione per un album. Ogni canzone è accompagnata da un disegno. A me è toccata quella (link) che parla di cani e l’ho pensata in questo modo.
C’è poi anche il disegno del cactus, che è molto divertente.
Sì. “Tutt’a vita int’a nu vaso e maje nu vaso”. Tutta la vita dentro a un vaso e mai un bacio. Al cactus non lo bacia nessuno.
Ho visto che stai lavorando a un nuovo progetto sull’alto casertano.
Tra un mese uscirà un blog che puoi seguire. Anche gli articoli sono volti a riscoprire le tradizioni, ma in una veste culturale. Ad esempio, parleremo della mozzarella locale associandola a Proust. Vedrai.